Prima di partire avevo fatto un accenno leggero e quasi imbarazzato della loro presenza ai compagni di viaggio - Lorenzo, Giovanna e Gilberto - , avevo cercato di prepararli a ciò che avremmo trovato. Non sapevo ancora come l’avrebbero presa, che reazione avrebbero avuto di fronte a quella umanità diversa, e così le mie parole erano state piuttosto vaghe, generiche e incerte. Li conoscevo da anni, sapevo che erano persone meravigliose, spontanee e aperte verso il prossimo, ma mai avevo affrontato questo genere di esperienza con loro. Poteva darsi che reagissero a questa notizia, non già con fastidio, questo sicuramente no, ma per lo meno con un certo qual imbarazzo, e la cosa mi lasciava irrequieto. E loro in effetti a quelle parole mi erano apparsi confusi, disorientati e forse intimoriti. Ed in effetti, giunti al rifugio, l’impatto fu subito forte, sconvolgente per certi aspetti. L’ampio salone del camino era occupato da questi ragazzi, vocianti, allegri, gironzolanti disordinatamente tra i divani e i tavoli. Qualcuno si lanciava in urletti portentosi da “picchiatello”, qualcun altro disegnava o leggeva vecchie riviste. Una bella accoglienza. Gli amici – ed io stesso – rimasero attoniti a quella scena, incapaci di una minima reazione. Per completare l’opera ci si avvicinò un ragazzo alto, imponente e scuro in volto, che con gesti minacciosi ci gridò in faccia un “vaffanculo” definitivo. Seguito da un magnifico sorriso e una risata scoppiettante. Non potemmo fare a meno di ridere di rimando.
Manuel, uno degli educatori, ci venne subito incontro e ci diede il benvenuto con l’intento di presentarci Lucianino. Ma Lucianino, preso da ben altre incombenze, era già andato via al grido di “co-co-co…”.
«Sapete com’è – disse Manuel – , Lucianino ha un linguaggio tutto suo, a metà tra l’etrusco arcaico e l’ostrogoto…, e nessuno è riuscito ad intenderlo fino ad ora.
«In effetti devo dire che si capisce, poco – commentai – , ma quel poco per converso è assolutamente chiaro…! Te l’assicuro».
E così, incuriosito della nostra presenza, ci si avvicinò un altro ospite, Antonio, che senza star lì a fare formali e inutili presentazioni subito dichiarò sottovoce: «Noi s’è di Firenze». Al che Giovanna, un po’ rincuorata mi sospirò discretamente all’orecchio: «Questo mi sembra decisamente a posto…». Peccato però che nel giro di una decina di minuti il buon Antonio continuò a dirci di essere di Firenze per quasi un centinaio di volte. Poi giunse Daniele, che senza falsi pudori ci inondò d’affetto, abbracciandoci, prendendoci per mano e conducendoci verso un tavolo da ping-pong. E ancora Mauro con i suoi disegni, Paolo con il suo atteggiamento da chi la sa lunga, Giuseppe detto Bambolone con le sue espressioni irridenti, Giorgio, Katiuscia, Tiziana e tutti gli altri. Pochi minuti furono sufficienti per abbandonare i nostri timori e perplessità ed essere travolti da questa umanità.
E così la vita del rifugio, cominciò a marciare al suono di questi nuovi ospiti, in un’armonia fiabesca, fatta di tenerezza, amore, affetto spontaneo, sincero, ricambiato. Mai in tutti gli anni che ero venuto quassù, mi era capitato di entrare così in fretta in armonia con i presenti, mai avevo avuto un rapporto così spontaneo ed immediato con tutti, mai avevo vissuto ogni attimo con tanta intensità ed empatia. Di solito l’equilibrio in cui senti di star bene con gli altri lo raggiungi dopo giorni di condivisione: questa volta avveniva tutto e subito, come per incanto.
Il giorno seguente, i ragazzi fecero un giro per i monti con i loro educatori, mentre noi “normali” venivamo affidati ad una guida ambientale. Mi dispiacque questa scelta, perché avrei preferito andare con loro, stare a contatto con la natura, provare sensazioni e fare esperienze con loro. Ma i giochi erano fatti. Tra l’altro, la cosa mi dispiaceva ancor di più perché, appena sveglio, ero sceso nel salone della colazione, ed incrociando Antonio, questi, prim’ancora di darmi il buongiorno, aveva proferito con convinzione “noi s’è di Firenze”. Come potevo perdermi il seguito?
Vidi i ragazzi allontanarsi verso il passo al grido di Daniele: “Gruppo disabili, in marcia…”. C’era talmente tanta auto-ironia in quell’espressione che non poteva che solleticare il sorriso e lasciare senza parole. Un po’ più in là, discosta ma a portata di mano, c’era la commozione. Discreta e pudica.
Tornati a baita, i gruppi si riunirono: c’era entusiasmo tra i “picchiatelli” e io avevo una gran fretta di immergermi nuovamente tra di loro. Antonio mi prese da parte e con la consueta pacatezza mi disse: «S’è fatto proprio bene a venì quassù: ho camminato tra i boschi, ho giocato a ping-pong, a carte, c’è la neve. Se si restava a Firenze saremmo andati alla Misericordia…! Là son tutti anziani: l’anziani devono stare con l’anziani». Gli diedi ragione trattenendo a stento il sorriso.
A cena vi erano tavoli separati, e mentre al nostro regnava sobrietà, eleganza, toni pacati e fini ragionamenti, al loro esplodeva la gioia. Incontenibile. E sapevo che non era quello il mio posto, rimpiangevo di non essere lì con loro. Non facevo che fissarli, attratto dalle loro espressioni, dalle loro battute ironiche con le quali si prendevano in giro senza risentimenti, dai loro abbracci veri. Da quell’avvicinarsi di teste, che sa d’affetto. Una forza magnetica cui era impossibile resistere. E dunque reggevo più che potevo, due parole con i commensali giusto per non apparire sgarbato, ma alla prima occasione, tra una portata e l’altra, mi levavo dalla mia tavola e, in barba all’etichetta, mi precipitavo verso di loro, ritagliandomi uno spazio minuscolo, uno pur che fosse, preso quasi con la forza. E i ragazzi mi accoglievano con entusiasmo facendomi posto, perché tra loro non c’era cattiveria, non invidia, né arroganza, altezzosità, né l’inutile pudore di non apparire per quel che si è. Ma solo affetto disinteressato, sincerità, forza d’animo, voglia di vivere, voglia di allegria, ironia senza sarcasmo, gioia della condivisione, amore per il cibo, senza pensieri tossici rivolti al domani. In loro avvertivo la consapevolezza della fugacità dell’attimo, la capacità di afferrare al volo quei pochi momenti di eternità che il destino consegnava nelle loro mani. E non avevano il timore di afferrarla questa felicità, la facevano propria con voluttà e passione. Ed osservando tutto questo pensavo a quante persone conoscevo – io per primo – , incapaci di apprezzare la bellezza, la pienezza della vita, la fortuna di essere “normali”, la possibilità di fare della nostra esistenza ciò che vogliamo. E provavo compassione non già per i ragazzi che avevo intorno a me, che mi apparivano il ritratto della gioia, ma per gli altri – io per primo – che vivevano una vita inquieta, immersa nell’angoscia e nella preoccupazione per ciò che sarà il domani.
La serata proseguì tra giochi, canti, tutto un’esplosione di sensazioni dal sapore d’infanzia. Fino a che i “picchiatelli” non si accomiatarono per la notte e il rifugio piombò improvvisamente nella quiete. Che pure è uno stato di grazia, ma che in quella circostanza lasciava un senso di vuoto immenso dopo tutta quella specialissima confusione.
Il giorno dopo non ci furono più gruppo separati: s’andava per i monti tutti assieme. Gli educatori partirono temendo che potesse esserci del malumore tra i “normali” per la lentezza del cammino, per le difficoltà che i ragazzi avrebbero incontrato lungo i sentieri: alla prova dei fatti al contrario, invece di quattro educatori, ve ne furono una dozzina abbondante. Tutti straordinariamente coinvolti, scrupolosi, protettivi, disposti a rischiare anche del loro pur di garantire l’incolumità dei ragazzi. Perché in effetti il cammino che si fece in montagna, non fu affatto semplice, né privo di rischi. A volte il sentiero era sconnesso, scosceso, in alcuni tratti impervio e ghiacciato. E la salita era una salita vera, che molti “normali” non s’arrischierebbero a intraprendere nemmeno in condizioni perfette. Ma quei ragazzi, al pari dei loro educatori, ne avevano di coraggio, forza d’animo e fiducia. Una fiducia totale e incondizionata, tale che nulla li avrebbe fermati. Perché la bellezza della Natura era lì anche per loro. E tale era diventata la simbiosi di questa combriccola di squinternati che gli educatori vecchi e nuovi si prendevano cura dei ragazzi e i ragazzi si prendevano cura degli educatori, aiutandosi reciprocamente nei passaggi più difficili. Durante le soste poi, si scatenavano immancabilmente le battaglie a palle di neve, si ruzzolava giù dai pendii, ci si rincorreva, si slittava col culo in terra. Un’allegria senza limiti, accompagnata dall’ironia sempre presente. Spesso i ragazzi facevano finta di essere in difficoltà per prendere in giro gli educatori, altre volte si lanciavano in esclamazioni tipo “oh Dio…” per simulare la loro apprensione, e poi ne ridevano di traverso. E gli educatori stavano al gioco, non lesinando rimproveri bonari ai ragazzi. In un frangente sentii Daniele dire ad un compagno: «Paolino, cammina di là che c’è il ghiaccio». E questi di rimando: «Oh ‘mbecille, vacci tu». E tutti a ridere.
Sul finire della gita qualcuno era molto stanco e tra questi Giorgio. Seduto in terra non intendeva proseguire. Al che Manuel cercò dapprima di convincerlo con le buone, ed in seguito, cominciò a trattarlo con una certa durezza. Non c’era pietismo nei suoi confronti, nessuna atteggiamento falsamente compassionevole: l’educatore sapeva che Giorgio poteva farcela, lo spronava a dare di più, a trovare la forza che pure c’era dentro di lui. E Giorgio, procedendo con un’andatura barcollante, prese a inveire pesantemente contro la guida e la sorte, giungendo perfino a qualche bestemmia. Ma arrivò alla fine, e contando solo sulle sue gambe. Quando giunsi al rifugio riferii la cosa a Manuel e questi mi raccontò di quando il parroco del loro paese, commentando quelle imprecazioni, sostenne che “non solo erano scusabili, ma probabilmente anche legittime dal loro punto di vista”.
La sera dell’ultimo dell’anno giunse un nuovo gruppo di persone, e chiaramente gli onori di casa li fece Lucianino con un apprezzatissimo “vaffanculo”, accompagnato dal gesto dell’indice che taglia la gola. Tra costoro c’era anche un musicista provetto munito di chitarra classica. I ragazzi gli chiesero a gran voce qualche pezzo, Daniele insisteva per un brano di Vasco, ma questi attaccò inopinatamente con una canzone del proprio repertorio. Ascoltavo seduto accanto ad Antonio e, dal momento che il suo volto denotava non un grande entusiasmo, gli chiesi: «Ti piace sta canzone?». Antonio serissimo scosse il capo e buttò lì un portentoso: «Mi fa cacare…». Scoppiai a ridere senza pudore tra gli sguardi severi di tutti i presenti. Dopo qualche attimo Antonio mi toccò il braccio e aggiunse: «Dura ancora molto…?». Gli risposi ancor più ridendo che non lo sapevo. Al che questi si levò dal tavolo e disse: «Vò a fa’ du passi». Mi afflosciai al suolo come un conigliotto selvatico abbattuto. Sul finire della serata andai dal cantautore e gli raccontai tutto: non ce la facevo a tenermela tutta per me quella meraviglia. Ci fu uno scoppio di riso corale di tutti i presenti. Qualcuno aggiunse biecamente: «Te l’avevo pur detto di cambiar genere…».
A mezzanotte uscimmo dal rifugio e intorno al grande falò intonammo canti e ammirammo le lanterne cinesi che scomparivano verso le costellazioni dell’Orsa Maggiore e Cassiopea. Rientrando incrociai ancora Antonio, questa volta con un’espressione assai più serena dipinta sul volto: «S’è fatto proprio bene a venì quassù…! C’è stato pure il tiramisù». Annuii e pensando di fare cosa gradita aggiunsi: «Già, e poi s’è camminato, s’è giocato a ping-pong…». Ma Antonio m’interruppe bruscamente: «Si, si me lo ricordo…». E se ne andò senza salutare.
Tra gli ultimi sonnambuli trovai al tavolo Mauro, intento a disegnare. Manifestai il mio apprezzamento per la sua opera e questi subito mi propose di acquistarla: “Cinque euro, prezzo amico”. Non potei fare a meno di concludere quell’affare: sul retro del foglio c’era il luogo, la data e la firma, Mauro[omissis] artista-pittore.
La mattina successiva, dopo colazione, cominciammo i preparativi per la partenza. Nevicava. Scendemmo da basso e, con la voce strozzata dalla commozione, cominciammo a salutare i ragazzi. Mi faceva uno strano effetto abbracciarli uno per uno: erano come parenti strettissimi da cui duole distaccarsi. Si avvertiva fortissima la sensazione che quella era un’esperienza conclusa e irripetibile, si percepiva la finitezza del momento, la perfezione dell’attimo, la conclusione di un’avventura che aveva regalato sensazioni indescrivibili e indimenticabili. Quando strinsi Mauro mi disse piano: «Sei il mio miglior amico». Se l’avessi detto a Manuel probabilmente mi avrebbe risposto che era per via dell’acquisto del quadro. Preferii tenermi quella confessione per me. Mi faceva un gran bene, scendeva come balsamo giù nel profondo del mio animo ferito dalla vita.
Tornato a casa mi giunse un messaggio da Giovanna: «Sotto la metropolitana mentre faccio il biglietto alla macchinetta si sente un “vaffanculo” da uno che si è incastrato nel tornello. Mi volto a guardare sorridendo tra me…»
Una bella chiosa al racconto di questi giorni.
P.S. Ieri ho parlato a telefono con Leo. Mi ha raccontato del suo Capodanno: è stato ad un veglione con annesso speed date. Per 150 euro ha mangiato poco e male ed ha incontrato a rotazione potenziali partner dell’altro sesso. Peraltro assai deludenti, a suo dire. Ed oltretutto pare che gli abbiano bevuto a tradimento anche il suo bottiglione di vino che aveva acquistato a parte.
Buon anno a tutti.
Proprio bello! Una rievocazione commovente e divertente insieme.
RispondiEliminaGrazie Luigi!
bel resoconto janez! Commovente e divertente e dotato di una sensibilità non comune. Lo leggerò ai ragazzi e alle loro famiglie, perché il punto di vista degli esterni è spesso molto prezioso. Grazie ancora di tutto,
RispondiEliminaLuca/Manuel
Grazie a tutti voi, ragazzi: siete meravigliosi.
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