Prova
“Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)
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lunedì 30 dicembre 2013
domenica 29 dicembre 2013
Pasqua è lontana..., ma neanche tanto...
Sospinto da un primordiale bisogno di conoscere e dare risposte ai grandi interrogativi della vita, il Pellegrino si libera, uno dopo l’altro, come nel lento susseguirsi dei suoi passi, dei pensieri che l’affliggono e, nello spirito del libero vagabondare della mente, ritrova se stesso e coglie l’essenza più vera del Creato. In cammino verso il Santuario di San Pellegrino in Alpe, attraverso antiche vie di pellegrinaggio, alla scoperta di un territorio affascinante dove, in un ambiente naturale di rara bellezza, pievi, ospitali, castelli e borghi raccontano una storia millenaria […].
Anticipo gli auguri di buon anno a tutti, ormai manca poco al 2014. Visto che un po’ di feste sono passate e sicuramente vi sarete riempiti all’inverosimile forse è meglio pensare già a come smaltire tutti i chili di troppo presi in questi giorni ;-) Leggete l’allegato (Il Cammino di San Pellegrino - Sul sentiero dei pellegrini da Reggio Emilia a San Pellegrino in Alpe).
La mia proposta è di riunirci tutti assieme per Pasqua ed estendere il cammino fino a Lucca (dal 19/20 aprile fino al 26 aprile). Forse qualcuno si fregherà le mani pensando al bel ponte che ci aspetta per Pasqua 2014, sognando qualche meta esotica, ma come mi ha insegnato qualcuno l’estate scorsa non conta la meta, ma il cammino (“… il senso del viaggiare è nella strada che si fa e non nella meta…”). Quindi se a qualcuno interessa tra gennaio e febbraio proverò a contattare le persone che hanno organizzato il giro per chiedere tutte le informazioni necessarie (tipo cartine, segnaletica, posti per dormire ecc). Avete tutto il tempo per pensarci.
Lorenzo.
Il Cammino di San Pellegrino: http://www.retecamminifrancigeni.eu/lib/File/pieghevole%20CSP%204%20pag%20definitivo(1).pdf
Anticipo gli auguri di buon anno a tutti, ormai manca poco al 2014. Visto che un po’ di feste sono passate e sicuramente vi sarete riempiti all’inverosimile forse è meglio pensare già a come smaltire tutti i chili di troppo presi in questi giorni ;-) Leggete l’allegato (Il Cammino di San Pellegrino - Sul sentiero dei pellegrini da Reggio Emilia a San Pellegrino in Alpe).
La mia proposta è di riunirci tutti assieme per Pasqua ed estendere il cammino fino a Lucca (dal 19/20 aprile fino al 26 aprile). Forse qualcuno si fregherà le mani pensando al bel ponte che ci aspetta per Pasqua 2014, sognando qualche meta esotica, ma come mi ha insegnato qualcuno l’estate scorsa non conta la meta, ma il cammino (“… il senso del viaggiare è nella strada che si fa e non nella meta…”). Quindi se a qualcuno interessa tra gennaio e febbraio proverò a contattare le persone che hanno organizzato il giro per chiedere tutte le informazioni necessarie (tipo cartine, segnaletica, posti per dormire ecc). Avete tutto il tempo per pensarci.
Lorenzo.
Il Cammino di San Pellegrino: http://www.retecamminifrancigeni.eu/lib/File/pieghevole%20CSP%204%20pag%20definitivo(1).pdf
venerdì 27 dicembre 2013
La tregua di Natale
Il giorno di Natale del 1914, nel primo anno della prima guerra mondiale, i soldati tedeschi, inglesi e francesi disobbedirono ai loro superiori e fraternizzarono con “il nemico” lungo due terzi del fronte occidentale. Le truppe tedesche innalzarono alberi di Natale fuori delle trincee con le scritte “Buon Natale.” “Voi non sparate, noi non spariamo.” A migliaia, le truppe attraversarono la terra di nessuno su cui giacevano sparsi corpi in decomposizione. Cantarono i canti di Natale, si scambiarono le foto dei cari rimasti a casa, condivisero le razioni, giocarono a calcio, arrostirono persino alcuni maiali. I soldati abbracciarono gli uomini che solo poche ore innanzi cercavano di uccidere. Si misero d’accordo per avvertirsi se i superiori li avessero obbligati a imbracciare le loro armi e di mirare in alto.
Agli alti comandi, di entrambe le parti, vennero i brividi. Stava succedendo il disastro: soldati che dichiarano la loro fratellanza e che rifiutano di combattere. I generali, da tutte e due le parti, dichiararono questo pacificarsi spontaneo come tradimento e pertanto conforme alla corte marziale. Entro marzo 1915 il movimento di fraternizzazione era stato sradicato e la macchina di morte rimessa completamente all’opera. Al momento dell’armistizio nel 1918, quindici milioni di persone erano state massacrate.
Poche persone sanno la storia della tregua di Natale. I capi militari non hanno infranto le loro regole per renderla pubblica. Il giorno di Natale del 1988, una cronaca nel Boston Globe accennava che una radio FM locale aveva mandato in onda “Natale nelle trincee,” (Christmas in the trenches) una ballata sulla tregua di Natale, parecchie volte e c’era stato un effetto stupefacente. A Boston, la canzone era diventata il pezzo più richiesto durante le feste su parecchie stazioni FM. “Ancor più stupefacente del numero di richieste avute è la reazione seguente alla ballata degli ascoltatori che non l’avevano mai sentita prima,” ha detto il conduttore. “Mi telefonavano profondamente commossi, a volte in lacrime, chiedendo, ‘Cosa diavolo ho appena ascoltato?’”
Penso di sapere perché gli ascoltatori si erano commossi. La storia della tregua di Natale va contro la maggior parte delle cose che ci hanno insegnato circa la gente. Ci fa dare un’occhiata di un mondo come vorremmo che fosse e dice, “Questo, una volta, è veramente accaduto.” Ci ricorda di quei pensieri che manteniamo celati, fuori della portata della TV e degli articoli di giornale che ci dicono come la vita umana sia insignificante e meschina. È come sentire che i nostri desideri più profondi in verità sono giusti: realmente il mondo potrebbe essere differente.
Estratto da “We CAN Change the World: The Real Meaning of Everyday Life” di David G. Stratman (New Democracy Books, 1991).
Per approfondire: http://www.ibs.it/code/9788856502343/j-rgs-michael/piccola-pace-nella-grande.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Tregua_di_Natale
Estratto da “We CAN Change the World: The Real Meaning of Everyday Life” di David G. Stratman (New Democracy Books, 1991).
Per approfondire: http://www.ibs.it/code/9788856502343/j-rgs-michael/piccola-pace-nella-grande.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Tregua_di_Natale
lunedì 23 dicembre 2013
Natale, come sopravvivere alle perigliose conversazioni a tavola…
E veniamo al delicatissimo tema del Cenone, ovvero a quell’appunta-mento imperdibile per tutte le famiglie riunite intorno alla tavolata imbandita a festa. Per le genti del meridione d’Italia, non è un mistero, il momento più importante di tutto il periodo natalizio è la cena della vigilia, ovvero il 24 dicembre (al nord invece, quello che conta veramente è il pranzo del 25). È un rito che si ripete identico a se stesso da generazioni e che viene preceduto da una sorta di digiuno alla Pannella: niente cibo, salvo pizzefritte condite con pomodoro, broccoli sbollentati e un po’ di pesce in bianco. Alla faccia dello sciopero della fame…! Si arriva a sera dunque con un bel languorino nello stomaco: si comincia con l’antipasto a base di tartine di salmone e caviale (o meglio - data la crisi - di lompo), associate agli immancabili grissini avvolti nel prosciutto crudo e circondati da olivette e carciofini; si continua con un primo di pesce (tipo spaghettini all’astice - o meglio, sempre data la crisi, di canocchie); a cui segue una serie di portate sempre a base di pesce. Sulla tradizionale tavola meridionale, per esempio, non deve mai mancare il capitone (giustiziato poche ore prima, e a mani nude, dalla sagace padrona di casa). A seguire formaggi e frutta (fresca e secca) in abbondanza; e per finire i dolci tipici della cultura locale: cartellate, taralli neri, mostaccioli, pastarelle etc…! Non mancano poi panettoni e pandori, anche se, per dirla tutta, si sente forte nei loro confronti una sorta di snobismo partigiano. Come a dire: “Quella roba va bene per i polentoni…”. Sulla tavola poi, in luogo dell’ammazzacaffè classico, si rincorrono le bottiglie di rosolio preparate artigianalmente dalle massaie: limoncelli, liquori al caffè, creme al cioccolato, mandarinetti isolabella…! Di tutto di più: e immancabilmente si tratta della vera, unica ricetta originale…!
E così, tra una portata e l’altra, si arriva a mezzanotte. Chi ne ha la forza si arma di coraggio e va in chiesa per seguire la messa; gli altri, mezzi avvelenati dall’alcol forte della serata, ciondolano per la casa in attesa di ritirarsi nelle proprie stanze. Ma prima di ciò, c’è bisogno di dar vita al momento più sacro della serata: la nascita di Gesù Bambino. In casa di mio nonno materno, per esempio, questo rito si svolgeva in un’atmosfera a metà tra il serio e il faceto: il capofamiglia prendeva delicatamente il Bambinello avvolto nella bambagia e cominciava una sorta di processione in giro per la casa. Dietro di lui tutti gli altri componenti della famiglia. E intonando “Tu scendi dalle stelle”, si giungeva davanti al presepio. Il Bambinello veniva deposto, e dopo una preghiera, liberi tutti.
Già, ma durante tutto questo evento, che tipo di conversazioni si susseguono a tavola? In genere i commensali sono parenti, più di rado ci si riunisce con gli amici. Si parla della vita che è trascorsa fino ad allora, delle novità più recenti, degli amori, del lavoro, dei successi personali. La tavolata di Natale è spesso uno dei luoghi più idonei per dar sfogo al libero vanto. Quando poi, vuoi per la mancanza di confidenza tra i commensali, vuoi per la carenza di argomenti, la conversazione langue, si finisce a parlare dell’attualità: politica, tasse, deriva etica e morale dei costumi. Ed è questo il segnale che bisogna ricorrere immediatamente ai superalcolici tenuti saggiamente di riserva.
Il sito del Corriere della Sera ha pubblicato oggi un bell’articolo di Beppe Severgnini sul tema: “Ma di cosa parleremo al cenone? - Piccolo manuale di sopravvivenza socio-natalizia a tavola”. E questo ne è l’incipit: “Pranzo di Natale. Indovina chi viene a Natale? La rivincita di Natale! Una famiglia perfetta (a Natale). Vi siete mai chiesti perché cenoni e pranzi natalizi accendono la fantasia cinematografica e popolare? Non accade solo in Italia. In questi giorni Sky trasmette «Scusa, mi piace tuo padre». La protagonista, dispiaciuta per l’entusiasmo del consorte verso una graziosa amica della figlia, irrompe in giardino con l’auto e abbatte le decorazioni natalizie. Non sempre, bisogna dire, gli esiti sono altrettanto spettacolari. Ma al cenone della vigilia e al pranzo di Natale qualcosa, inevitabilmente, succede. Questo 2013 italiano - denso di scosse politiche, traumi economici, scontri di piazza, incendi e alluvioni - appare particolarmente insidioso. Per evitare ulteriori cataclismi, ecco un manuale di sopravvivenza socio-natalizia [...]”.
Continua a leggere: http://www.corriere.it/cronache/13_dicembre_23/natale-guida-cenone-no-liti-512e1246-6baa-11e3-82ae-77df18859bd6.shtml
E così, tra una portata e l’altra, si arriva a mezzanotte. Chi ne ha la forza si arma di coraggio e va in chiesa per seguire la messa; gli altri, mezzi avvelenati dall’alcol forte della serata, ciondolano per la casa in attesa di ritirarsi nelle proprie stanze. Ma prima di ciò, c’è bisogno di dar vita al momento più sacro della serata: la nascita di Gesù Bambino. In casa di mio nonno materno, per esempio, questo rito si svolgeva in un’atmosfera a metà tra il serio e il faceto: il capofamiglia prendeva delicatamente il Bambinello avvolto nella bambagia e cominciava una sorta di processione in giro per la casa. Dietro di lui tutti gli altri componenti della famiglia. E intonando “Tu scendi dalle stelle”, si giungeva davanti al presepio. Il Bambinello veniva deposto, e dopo una preghiera, liberi tutti.
Già, ma durante tutto questo evento, che tipo di conversazioni si susseguono a tavola? In genere i commensali sono parenti, più di rado ci si riunisce con gli amici. Si parla della vita che è trascorsa fino ad allora, delle novità più recenti, degli amori, del lavoro, dei successi personali. La tavolata di Natale è spesso uno dei luoghi più idonei per dar sfogo al libero vanto. Quando poi, vuoi per la mancanza di confidenza tra i commensali, vuoi per la carenza di argomenti, la conversazione langue, si finisce a parlare dell’attualità: politica, tasse, deriva etica e morale dei costumi. Ed è questo il segnale che bisogna ricorrere immediatamente ai superalcolici tenuti saggiamente di riserva.
Il sito del Corriere della Sera ha pubblicato oggi un bell’articolo di Beppe Severgnini sul tema: “Ma di cosa parleremo al cenone? - Piccolo manuale di sopravvivenza socio-natalizia a tavola”. E questo ne è l’incipit: “Pranzo di Natale. Indovina chi viene a Natale? La rivincita di Natale! Una famiglia perfetta (a Natale). Vi siete mai chiesti perché cenoni e pranzi natalizi accendono la fantasia cinematografica e popolare? Non accade solo in Italia. In questi giorni Sky trasmette «Scusa, mi piace tuo padre». La protagonista, dispiaciuta per l’entusiasmo del consorte verso una graziosa amica della figlia, irrompe in giardino con l’auto e abbatte le decorazioni natalizie. Non sempre, bisogna dire, gli esiti sono altrettanto spettacolari. Ma al cenone della vigilia e al pranzo di Natale qualcosa, inevitabilmente, succede. Questo 2013 italiano - denso di scosse politiche, traumi economici, scontri di piazza, incendi e alluvioni - appare particolarmente insidioso. Per evitare ulteriori cataclismi, ecco un manuale di sopravvivenza socio-natalizia [...]”.
Continua a leggere: http://www.corriere.it/cronache/13_dicembre_23/natale-guida-cenone-no-liti-512e1246-6baa-11e3-82ae-77df18859bd6.shtml
venerdì 20 dicembre 2013
“È il pensiero che conta”. Sì, ma fino a un certo punto…!
Meno cinque a Natale…, eccoci al rush finale. Sul sito di Panorama c’è un bel video che illustra una serie di personaggi alle prese con il momento più delicato della festività: la consegna del dono. Sono situazioni piuttosto ricorrenti, molto spesso imbarazzanti o addirittura comiche. A chi non è mai capitato di sbagliare clamorosamente un regalo, oppure di incorrere involontariamente in una gaffe agghiacciante. Certo poi sta al ricevente atteggiare la dovuta nonchalance, dimostrarsi tetragono ai colpi di ventura, ma non sempre si ha questa fortuna. Ed è proprio in questi momenti che si desidererebbe sprofondare all’istante al centro della Terra e far perdere le proprie tracce per sempre.
Ma andiamo a scoprire qualcuna di queste figure mitiche e anche un po’ mitologiche. Al primo posto troviamo “lo smemorato”: questi è un figuro molto particolare, costantemente con la testa fra le nuvole, mai a giorno di nulla; non sa mai la data, l’ora, dimentica sempre tutte le ricorrenze, si scorda degli appuntamenti. E naturalmente arriva ogni volta a mani vuote allo scambio dei regali. E passi per la prima volta, al massimo per la seconda, alla terza parenti e amici cominciano a malignare forsennatamente: “Farabutto che non è altro: a chi vuole darla a bere? Lo fa a posta: giù la maschera…”. La verità purtroppo è che costui sul serio non si ricorda di nulla, e in queste circostanze l’unica soluzione è nominare un tutore particolare che provveda alle sue mancanze: fattura a 30 giorni.
A seguire troviamo “quello con un pessimo gusto”. Qui invece le malignità sorgono immediate: “Possibile che un essere umano dotato di normale raziocinio possa pensare di regalare una porcheria del genere?”. In effetti di fronte alle scelte compiute da questo soggetto, ci si chiede davvero fin dove arrivi la sua incapacità di discernere il “bello” dal “brutto”, e dove cominci forse un briciolo di perfidia. La linea di demarcazione in questi casi è davvero sottilissima. Un periodo in compagnia si gareggiava a chi faceva il regalo più inguardabile: ma qui c’era una gara di vanto, ed era plateale, alla luce del sole. Quello con un pessimo gusto invece fa tutto in buona fede, sperando (anzi essendo convinto) di fare bene.
C’è poi il cosiddetto “grossista”, ovvero colui che, trovando la buona occasione, compra oggetti in stock. E poi ha anche il coraggio di dire a tutti i destinatari: “Pensa, l’ho visto sul bancone…, e ho pensato subito a te…”. Mentitore da competizione…!
Scendendo ancora nella lista troviamo “il deluso”. Qui non si tratta più del donante, ma del ricevente. Il deluso è una delle categorie più diffuse e presenti nelle case addobbate a festa: egli, al colmo dell’entusiasmo, prende il pacco, lo scarta con una frenesia incontrollabile, e tempo due secondi netti, lascia cadere sul suo volto un’espressione che neanche Luigi XVI davanti alla ghigliottina. E poi non c’è verso alcuno di risollevare tale stato d’animo: l’unico rimedio che ad oggi pare portare qualche beneficio è la fiasca del vino.
A scendere c’è “l’opportunista”, ovvero colui che sfrutta ogni situazione per ottenere un vantaggio per se stesso (tipo regalare del vino che poi anche lui berrà…!); “il riciclatore”, cioè colui che per elezione tende a regalare oggetti ricevuti a sua volta in regalo (ed immancabilmente, e a sua insaputa, spunta fuori una data, una dedica o un augurio indirizzato al primo ricevente…!); “lo spiegone”, vale a dire colui che regala cose talmente fuori dall’ordinario, che sente forte la necessità di fornire adeguate spiegazioni. Il che equivale al tipo che racconta una barzelletta, e poi, visto che nessuno ride, comincia a spiegarla. Da suicidio immediato e senza bigliettino d’addio.
Nella speciale classifica poi non poteva mancare “il trova-tutto”, ossia quel particolare figuro che, all’atto dello ‘scartocciamento’, inizia a raccontare le strabilianti peripezie che hanno portato al rinvenimento di quel rarissimo oggetto ora tra le mani del fortunato ricevente. Si favoleggia di mercatini di periferia introvabili, bottegucce clandestine, fantomatici mercanti giunti dall’oriente in groppa a cammelli e dromedari. La triste realtà, nella quasi totalità dei casi, è che si tratta di reperti scovati nei meandri di cantine e scantinati, abbandonati da epoche immemori.
A seguire troviamo “il pragmatico”, ovvero colui che per non star lì a impazzire tra negozi e bancarelle, prende una bella busta da lettera e ci schiaffa dentro una banconota da venti euro. Quando va bene…!
E poi c’è “l’indeciso”, vale a dire quello che non sa mai districarsi tra le mille scelte che gli si parano davanti. Per non parlare poi delle taglie dei capi d’abbigliamento: sempre immancabilmente sbagliate. Ecco perché questo personaggio - orrore a dirsi - non fa mai mancare lo scontrino al pacco dono.
E per finire le ultime due tipologie: “l’ecologista”, ovvero colui che non si fa scrupolo di regalare oggetti orripilanti purché rispettosi della natura; e “il pasticcione”, cioè lo sbadato che fa confusione con pacchetti e pacchettini e magari consegna all’amica di baldorie un paio di pantofole di lana merino e alla suocera un vibratore a percussione.
Ecco amici, se proprio quest’anno sentite l’irresistibile desiderio di regalare qualcosa a qualcuno, cercate di non incorrere in una di queste antipatiche categorie. E se proprio non vi riesce, consolatevi con il vecchio e sempre attuale adagio: “È il pensiero che conta”. Sarà ipocrita, ma funziona a meraviglia.
Fonte: http://societa.panorama.it/video-divertenti/Stereotipi-Regalo-Natale-Picsel
Ma andiamo a scoprire qualcuna di queste figure mitiche e anche un po’ mitologiche. Al primo posto troviamo “lo smemorato”: questi è un figuro molto particolare, costantemente con la testa fra le nuvole, mai a giorno di nulla; non sa mai la data, l’ora, dimentica sempre tutte le ricorrenze, si scorda degli appuntamenti. E naturalmente arriva ogni volta a mani vuote allo scambio dei regali. E passi per la prima volta, al massimo per la seconda, alla terza parenti e amici cominciano a malignare forsennatamente: “Farabutto che non è altro: a chi vuole darla a bere? Lo fa a posta: giù la maschera…”. La verità purtroppo è che costui sul serio non si ricorda di nulla, e in queste circostanze l’unica soluzione è nominare un tutore particolare che provveda alle sue mancanze: fattura a 30 giorni.
A seguire troviamo “quello con un pessimo gusto”. Qui invece le malignità sorgono immediate: “Possibile che un essere umano dotato di normale raziocinio possa pensare di regalare una porcheria del genere?”. In effetti di fronte alle scelte compiute da questo soggetto, ci si chiede davvero fin dove arrivi la sua incapacità di discernere il “bello” dal “brutto”, e dove cominci forse un briciolo di perfidia. La linea di demarcazione in questi casi è davvero sottilissima. Un periodo in compagnia si gareggiava a chi faceva il regalo più inguardabile: ma qui c’era una gara di vanto, ed era plateale, alla luce del sole. Quello con un pessimo gusto invece fa tutto in buona fede, sperando (anzi essendo convinto) di fare bene.
C’è poi il cosiddetto “grossista”, ovvero colui che, trovando la buona occasione, compra oggetti in stock. E poi ha anche il coraggio di dire a tutti i destinatari: “Pensa, l’ho visto sul bancone…, e ho pensato subito a te…”. Mentitore da competizione…!
Scendendo ancora nella lista troviamo “il deluso”. Qui non si tratta più del donante, ma del ricevente. Il deluso è una delle categorie più diffuse e presenti nelle case addobbate a festa: egli, al colmo dell’entusiasmo, prende il pacco, lo scarta con una frenesia incontrollabile, e tempo due secondi netti, lascia cadere sul suo volto un’espressione che neanche Luigi XVI davanti alla ghigliottina. E poi non c’è verso alcuno di risollevare tale stato d’animo: l’unico rimedio che ad oggi pare portare qualche beneficio è la fiasca del vino.
A scendere c’è “l’opportunista”, ovvero colui che sfrutta ogni situazione per ottenere un vantaggio per se stesso (tipo regalare del vino che poi anche lui berrà…!); “il riciclatore”, cioè colui che per elezione tende a regalare oggetti ricevuti a sua volta in regalo (ed immancabilmente, e a sua insaputa, spunta fuori una data, una dedica o un augurio indirizzato al primo ricevente…!); “lo spiegone”, vale a dire colui che regala cose talmente fuori dall’ordinario, che sente forte la necessità di fornire adeguate spiegazioni. Il che equivale al tipo che racconta una barzelletta, e poi, visto che nessuno ride, comincia a spiegarla. Da suicidio immediato e senza bigliettino d’addio.
Nella speciale classifica poi non poteva mancare “il trova-tutto”, ossia quel particolare figuro che, all’atto dello ‘scartocciamento’, inizia a raccontare le strabilianti peripezie che hanno portato al rinvenimento di quel rarissimo oggetto ora tra le mani del fortunato ricevente. Si favoleggia di mercatini di periferia introvabili, bottegucce clandestine, fantomatici mercanti giunti dall’oriente in groppa a cammelli e dromedari. La triste realtà, nella quasi totalità dei casi, è che si tratta di reperti scovati nei meandri di cantine e scantinati, abbandonati da epoche immemori.
A seguire troviamo “il pragmatico”, ovvero colui che per non star lì a impazzire tra negozi e bancarelle, prende una bella busta da lettera e ci schiaffa dentro una banconota da venti euro. Quando va bene…!
E poi c’è “l’indeciso”, vale a dire quello che non sa mai districarsi tra le mille scelte che gli si parano davanti. Per non parlare poi delle taglie dei capi d’abbigliamento: sempre immancabilmente sbagliate. Ecco perché questo personaggio - orrore a dirsi - non fa mai mancare lo scontrino al pacco dono.
E per finire le ultime due tipologie: “l’ecologista”, ovvero colui che non si fa scrupolo di regalare oggetti orripilanti purché rispettosi della natura; e “il pasticcione”, cioè lo sbadato che fa confusione con pacchetti e pacchettini e magari consegna all’amica di baldorie un paio di pantofole di lana merino e alla suocera un vibratore a percussione.
Ecco amici, se proprio quest’anno sentite l’irresistibile desiderio di regalare qualcosa a qualcuno, cercate di non incorrere in una di queste antipatiche categorie. E se proprio non vi riesce, consolatevi con il vecchio e sempre attuale adagio: “È il pensiero che conta”. Sarà ipocrita, ma funziona a meraviglia.
Fonte: http://societa.panorama.it/video-divertenti/Stereotipi-Regalo-Natale-Picsel
mercoledì 18 dicembre 2013
Che tipo di ‘regalatore’ sei?
In queste gelide giornate di metà dicembre l’Italia è tutto un fremito: dai “forconi” che assediano i centri del potere, agli scioperi più o meno selvaggi; dallo shopping impazzito che fa schizzare lo smog oltre i livelli di guardia, agli imperdibili moniti presidenziali. E come se non bastasse questa triste congiuntura astrale, ecco avvicinarsi la più angosciante delle festività dell’anno: il Natale.
Ormai ci siamo, ancora una settimana e saremo immersi nella fantasmagoria della più strabiliante delle feste commerciali…! Hurrà… Seguirà come di consueto il pranzo di Natale, assisi intorno a banchetti spaventevoli, e come conseguenza soffriremo di una mostruosa indigestione causata dagli eccessi culinari. Che se uno fosse minimamente accorto potrebbe anche pensare: “A sto giro non mi fregano: e chi se ne importa se poi zia Ginetta ci resta male se lascio a metà la sua famosa lavagnetta ai funghi porcini…! Non posso mica ridurmi ad una larva dispeptica ogni volta…”. Ed in effetti c’è da chiedersi perché mai a Natale le persone debbano farsi per forza male da sole ingozzandosi come oche da foie gras della Dordogna: basterebbe limitarsi quel tanto che basta e al diavolo la citrosodina…! E invece no, ecco un recentissimo studio scientifico pronto a dimostrare che la quantità di cibo ingurgitata ha poco o nulla a che vedere con i disturbi gastroenterici festaioli. In realtà, come spiega all’Adn-Kronos lo psicopedagogista Edi Salvadori, pare che il Natale ci obblighi per convenzione a incontrare persone che non sempre riscuotono la nostra simpatia e da ciò ne deriverebbe una straordinaria reazione psicosomatica: “Le occasioni di incontro sono obbligate, ma non sempre gradite. Le famiglie sono una entità sempre più complessa e conflittuale. Generalmente si tenta di evitare le situazioni e gli incontri non graditi, e quando ciò non è possibile il corpo ci segnala il disagio emotivo con sintomi semplici ma emblematici: nausea, disturbi digestivi, mal di stomaco, mal di testa. Molti di questi disturbi possono essere ricondotti a conflitti emotivi che si innescano in situazioni di stress. Negli ultimi anni ho notato un aumento di questo disagio proprio dopo le feste. Fra le persone che seguo, una su quattro riferisce un peggioramento delle condizioni in questo periodo”. E dunque a monte i buoni propositi: se mal di stomaco dev’essere, mal di stomaco sarà…!
E i regali? ne vogliamo parlare? Anche qui ci saranno litrate di bile, non fatevi illusioni: ci ridurremo come al solito alle ultime 24 ore per correre ai ripari, e in questa frenesia disperata non faremo altro che danni. Statene pur certi. Ora però, abbiamo qualcosa di più certo a cui appoggiare le nostre angosce: la psicologa Paola Vinciguerra ha tracciato le linee guida sulle quali deve reggersi il nostro “desiderio” di regalare: «Nella scelta del regalo ci sono tre ‘ingredienti’ che non devono mai mancare: scambio, ascolto e generosità. Ma soprattutto è fondamentale focalizzarsi, più che sui propri gusti, su quelli della persona alla quale il dono è destinato». Semplice, semplicissimo…! Anni fa avevo un amico che era l’esatto contrario di tale asserzione: egli regalava sempre e soltanto cose che potessero servire a se stesso. Tanto che in compagnia si usava dire: “Cosa ti sei regalato per il compleanno di tuo padre?”. O di tua madre, o di tuo fratello, o per Natale, per la Befana, per Santa Lucia. Ogni occasione era buona per gratificarsi con qualcosa. Ecco, la psicologa invece ci invita a concentrarci sulla persona destinataria del regalo. E qual è il modo migliore per centrare l’obiettivo? Semplice: sapere ascoltare e al momento giusto ricordare. Inutile ad esempio regalare cravatte policrome a persone che vestono sempre con la tuta o col pigiama; o bottiglioni di grappa morbida a soggetti ipertesi e malati di fegato. In ogni caso però il regalo, prima di ogni altra cosa, deve essere sentito: se il tutto si riduce ad una semplice formalità è chiaro che va bene quel che capita. Ma a sto punto, piuttosto che regalare una delusione, meglio lasciar perdere. O no?
Ma quali sono le tipologie dei “regalatori” più ricorrenti nel panorama del dono: ecco pronta una bella lista molto completa (come direbbe l’esimio Maurizio Milani). Al primo posto troviamo “il ripetitivo”, ovvero colui che non viene mai meno alle sue poche, pavide certezze. Il motto di questo personaggio è più o meno questo: “Perché mai cambiare se l’altra volta è andata bene?”. E così la sua fatica natalizia sta semplicemente nel recarsi nel negozio dell’anno prima ed acquistare il medesimo articolo che tanto ha riscosso successo. Al netto di tutta l’ipocrisia che si cela dietro alla facciata del ricevente: “Oddio noooo, un altro libro di cucina della Clerici…”.
Al secondo posto invece troviamo “il frettoloso”, ovvero l’apoteosi dell’obbligatorietà, cioè l’esatto opposto di ciò che dovrebbe spingere a fare un regalo. Questo soggetto è la vittima principe del consumismo sfrenato, e in queste occasioni sente sul suo capo tutta l’inanità di questo gesto e di questo rituale, ma non ha la forza di ribellarsi. E così si lascia scolare addosso questo evento infausto nella maniera più indolore possibile: “Senta, devo regalare qualcosa a mia suocera…!” - “Ha qualche preferenza in fatto di profumi…?” - “Assolutamente no: faccia lei. Mi fido ciecamente”. Ed è così che si fa la felicità non già della suocera su menzionata, ma della proprietaria della profumeria, libera di “ammollare” la più fetente della acque di colonia rimaste in magazzino.
Al terzo posto ecco la categoria più fantasiosa, “gli originali”. Costoro sono dei malati di mente sempre in cerca di bizzarrie capaci di stupire e sorprendere. Ed è così che, nella notte più magica dell’anno, saltano fuori dalla carta regalo doni che farebbero storcere il naso perfino ad un macaco: kit completo in latta dura per “coltivare” perle; schiaccianoci a forma di Pippo Baudo; maniche in nylon per braccia magicamente coperte di tatuaggi; copri-capezzoli a forma di cuore. Di tutto di più: l’importante è che il dono sia originale.
C’è poi “quello che ha un pensiero per tutti”. In questo caso siamo di fronte ad uno dei soggetti più ecumenici della società civile; quando costui pensa ad un regalo, pensa un po’ a tutti. Si tratta inevitabilmente di filantropia spiccia, s’intende (caramelle e cioccolatini quasi sempre), a meno che l’elargitore non disponga di laute rendite al sole. Cosa assai improbabile tuttavia, essendo il ricco - per definizione - persona poco propensa al benessere del prossimo. In genere poi “quello che ha un pensiero per tutti” non dimentica mai di mandare lunghissimi e tediosi sms benauguranti a tutti i parenti, amici e conoscenti del globo terracqueo: centinai di messaggi tutti uguali, vaghi, generici e privi di qualsiasi connotato di natura personale. D’altra parte va bene pensare a tutti, ma non è che si può star lì a scrivere fino all’Epifania.
E per finire “i selettivi”, ovvero coloro che fanno sì regali, ma solo ed esclusivamente ai più intimi. Gli psicologi leggono tale atteggiamento come manifestazione di affettività sincera e spontanea; al contrario di coloro che regalano erga omnes, ma senza coinvolgimento reale. Data la crisi, pare che la categoria dei selettivi stia avendo la meglio su tutte le altre. Il che è un bene, s’intende: d’altra parte quando c’è l’amore c’è tutto. (“No ti sbagli, chella e ‘a salute”, Massimo Troisi - Ricomincio da tre, 1981).
Ad ogni modo stringete i denti, presto sarà tutto finito…
Fonte: http://www.tgcom24.mediaset.it/perlei/2013/notizia/regali-di-natale-dimmi-come-li-fai-e-ti-dir%EF%BF%BD-chi-sei_2015328.shtml
http://www.adnkronos.com/Salute/Sanita/?id=3.2.998014788
Ormai ci siamo, ancora una settimana e saremo immersi nella fantasmagoria della più strabiliante delle feste commerciali…! Hurrà… Seguirà come di consueto il pranzo di Natale, assisi intorno a banchetti spaventevoli, e come conseguenza soffriremo di una mostruosa indigestione causata dagli eccessi culinari. Che se uno fosse minimamente accorto potrebbe anche pensare: “A sto giro non mi fregano: e chi se ne importa se poi zia Ginetta ci resta male se lascio a metà la sua famosa lavagnetta ai funghi porcini…! Non posso mica ridurmi ad una larva dispeptica ogni volta…”. Ed in effetti c’è da chiedersi perché mai a Natale le persone debbano farsi per forza male da sole ingozzandosi come oche da foie gras della Dordogna: basterebbe limitarsi quel tanto che basta e al diavolo la citrosodina…! E invece no, ecco un recentissimo studio scientifico pronto a dimostrare che la quantità di cibo ingurgitata ha poco o nulla a che vedere con i disturbi gastroenterici festaioli. In realtà, come spiega all’Adn-Kronos lo psicopedagogista Edi Salvadori, pare che il Natale ci obblighi per convenzione a incontrare persone che non sempre riscuotono la nostra simpatia e da ciò ne deriverebbe una straordinaria reazione psicosomatica: “Le occasioni di incontro sono obbligate, ma non sempre gradite. Le famiglie sono una entità sempre più complessa e conflittuale. Generalmente si tenta di evitare le situazioni e gli incontri non graditi, e quando ciò non è possibile il corpo ci segnala il disagio emotivo con sintomi semplici ma emblematici: nausea, disturbi digestivi, mal di stomaco, mal di testa. Molti di questi disturbi possono essere ricondotti a conflitti emotivi che si innescano in situazioni di stress. Negli ultimi anni ho notato un aumento di questo disagio proprio dopo le feste. Fra le persone che seguo, una su quattro riferisce un peggioramento delle condizioni in questo periodo”. E dunque a monte i buoni propositi: se mal di stomaco dev’essere, mal di stomaco sarà…!
E i regali? ne vogliamo parlare? Anche qui ci saranno litrate di bile, non fatevi illusioni: ci ridurremo come al solito alle ultime 24 ore per correre ai ripari, e in questa frenesia disperata non faremo altro che danni. Statene pur certi. Ora però, abbiamo qualcosa di più certo a cui appoggiare le nostre angosce: la psicologa Paola Vinciguerra ha tracciato le linee guida sulle quali deve reggersi il nostro “desiderio” di regalare: «Nella scelta del regalo ci sono tre ‘ingredienti’ che non devono mai mancare: scambio, ascolto e generosità. Ma soprattutto è fondamentale focalizzarsi, più che sui propri gusti, su quelli della persona alla quale il dono è destinato». Semplice, semplicissimo…! Anni fa avevo un amico che era l’esatto contrario di tale asserzione: egli regalava sempre e soltanto cose che potessero servire a se stesso. Tanto che in compagnia si usava dire: “Cosa ti sei regalato per il compleanno di tuo padre?”. O di tua madre, o di tuo fratello, o per Natale, per la Befana, per Santa Lucia. Ogni occasione era buona per gratificarsi con qualcosa. Ecco, la psicologa invece ci invita a concentrarci sulla persona destinataria del regalo. E qual è il modo migliore per centrare l’obiettivo? Semplice: sapere ascoltare e al momento giusto ricordare. Inutile ad esempio regalare cravatte policrome a persone che vestono sempre con la tuta o col pigiama; o bottiglioni di grappa morbida a soggetti ipertesi e malati di fegato. In ogni caso però il regalo, prima di ogni altra cosa, deve essere sentito: se il tutto si riduce ad una semplice formalità è chiaro che va bene quel che capita. Ma a sto punto, piuttosto che regalare una delusione, meglio lasciar perdere. O no?
Ma quali sono le tipologie dei “regalatori” più ricorrenti nel panorama del dono: ecco pronta una bella lista molto completa (come direbbe l’esimio Maurizio Milani). Al primo posto troviamo “il ripetitivo”, ovvero colui che non viene mai meno alle sue poche, pavide certezze. Il motto di questo personaggio è più o meno questo: “Perché mai cambiare se l’altra volta è andata bene?”. E così la sua fatica natalizia sta semplicemente nel recarsi nel negozio dell’anno prima ed acquistare il medesimo articolo che tanto ha riscosso successo. Al netto di tutta l’ipocrisia che si cela dietro alla facciata del ricevente: “Oddio noooo, un altro libro di cucina della Clerici…”.
Al secondo posto invece troviamo “il frettoloso”, ovvero l’apoteosi dell’obbligatorietà, cioè l’esatto opposto di ciò che dovrebbe spingere a fare un regalo. Questo soggetto è la vittima principe del consumismo sfrenato, e in queste occasioni sente sul suo capo tutta l’inanità di questo gesto e di questo rituale, ma non ha la forza di ribellarsi. E così si lascia scolare addosso questo evento infausto nella maniera più indolore possibile: “Senta, devo regalare qualcosa a mia suocera…!” - “Ha qualche preferenza in fatto di profumi…?” - “Assolutamente no: faccia lei. Mi fido ciecamente”. Ed è così che si fa la felicità non già della suocera su menzionata, ma della proprietaria della profumeria, libera di “ammollare” la più fetente della acque di colonia rimaste in magazzino.
Al terzo posto ecco la categoria più fantasiosa, “gli originali”. Costoro sono dei malati di mente sempre in cerca di bizzarrie capaci di stupire e sorprendere. Ed è così che, nella notte più magica dell’anno, saltano fuori dalla carta regalo doni che farebbero storcere il naso perfino ad un macaco: kit completo in latta dura per “coltivare” perle; schiaccianoci a forma di Pippo Baudo; maniche in nylon per braccia magicamente coperte di tatuaggi; copri-capezzoli a forma di cuore. Di tutto di più: l’importante è che il dono sia originale.
C’è poi “quello che ha un pensiero per tutti”. In questo caso siamo di fronte ad uno dei soggetti più ecumenici della società civile; quando costui pensa ad un regalo, pensa un po’ a tutti. Si tratta inevitabilmente di filantropia spiccia, s’intende (caramelle e cioccolatini quasi sempre), a meno che l’elargitore non disponga di laute rendite al sole. Cosa assai improbabile tuttavia, essendo il ricco - per definizione - persona poco propensa al benessere del prossimo. In genere poi “quello che ha un pensiero per tutti” non dimentica mai di mandare lunghissimi e tediosi sms benauguranti a tutti i parenti, amici e conoscenti del globo terracqueo: centinai di messaggi tutti uguali, vaghi, generici e privi di qualsiasi connotato di natura personale. D’altra parte va bene pensare a tutti, ma non è che si può star lì a scrivere fino all’Epifania.
E per finire “i selettivi”, ovvero coloro che fanno sì regali, ma solo ed esclusivamente ai più intimi. Gli psicologi leggono tale atteggiamento come manifestazione di affettività sincera e spontanea; al contrario di coloro che regalano erga omnes, ma senza coinvolgimento reale. Data la crisi, pare che la categoria dei selettivi stia avendo la meglio su tutte le altre. Il che è un bene, s’intende: d’altra parte quando c’è l’amore c’è tutto. (“No ti sbagli, chella e ‘a salute”, Massimo Troisi - Ricomincio da tre, 1981).
Ad ogni modo stringete i denti, presto sarà tutto finito…
Fonte: http://www.tgcom24.mediaset.it/perlei/2013/notizia/regali-di-natale-dimmi-come-li-fai-e-ti-dir%EF%BF%BD-chi-sei_2015328.shtml
http://www.adnkronos.com/Salute/Sanita/?id=3.2.998014788
martedì 17 dicembre 2013
Un sogno fattibile: il periplo della Sicilia in bicicletta
L’estate è ancora lontana, a maggior ragione se ci si sofferma ad osservare il ghiaccio sui parabrezza delle auto e l’insegna luminosa della farmacia che segna -5. Eppure già si discute di quando, come e soprattutto dove andare in vacanza. Un amico di Roma, mezzo matto, crede che sia una buona idea prendere la sua ormai datata utilitaria (al momento ferma in un parcheggio condominiale per ragioni economiche) e andare a zonzo per l’est Europa (Polonia, Ucraina… “e se ci va arriviamo fino a San Pietroburgo…”); altri pensano ad un giro in bicicletta in Campania (Costiera Amalfitana in primis…), Basilicata e Puglia garganica; io invece sto studiando un itinerario attraverso l’Umbria, l’alto Lazio e la bassa Toscana. Vedremo cosa ci riserverà il futuro. Gironzolando qua e là su internet in cerca di ispirazione mi sono imbattuto in un reportage che narra le vicende di Giuseppe e Davide, due ardimentosi ragazzi in bicicletta, che nel mese di agosto scorso, hanno portato a termine uno dei miei grandi sogni, vale a dire il periplo della Sicilia. Il tutto compiuto in perfetta autonomia e con un budget incredibilmente risicato: 200 euro. Il titolo del racconto è “Sicily coast to coast” e questo è l’inizio:
L’anno scorso io e il mio più caro amico, Davide Laganà, abbiamo compiuto in bici il giro della Sicilia (l’intero periplo). Siamo partiti da Capo d’Orlando (ME) con un budget di 200 euro, che comprendeva anche l’attrezzatura del viaggio, il tutto spinto dalla semplice voglia di compiere quest’avventura, e questo è il nostro racconto.
Giuseppe: Ho i polpacci in tensione. Mi fanno male. Il sole è caldo. Caldissimo. Qui il mezzogiorno di maggio è come il primo pomeriggio di ferragosto: infuocato. L’asfalto assorbe i raggi solari e li sputa contro le mie ruote. Li sento risalire, entrano nella mia maglietta. Tengo la testa bassa sul manubrio. Pedalo automaticamente, ma a fatica. Anche l’abitudine si stanca in salita, e questa salita sembra non finire più. Ma quante salite ci sono in Sicilia? Per un istante mi sento come pentito. È un’immagine istantanea: vedo il divano di casa mia, una limonata ghiacciata, lo stereo acceso; il lusso dell’ozio. È un secondo di ripensamenti. Ma è uno soltanto e lo dimentico subito, lo elimino subito. Mi basta poco per farlo. Mi basta superare una curva e perdermi nella meraviglia: alzo la testa e le mie pupille si restringono, inondate dalla luce. Adesso davanti al mio naso c’è una macchia blu infinita che respira piatta, lenta, con un ritmo fuori dal tempo: il mare calmo, che brilla sotto la luce, che è di mille colori ed è sempre blu, ed è sempre bello, ed è sempre lo stesso mare che sta viaggiando con me da quando ho lasciato Capo d’Orlando; è lo stesso mare che sta tracciando con me il perimetro della mia isola. Lui cammina sulle onde, fra la sabbia, fra gli scogli delle coste. Io cammino sulla mia bicicletta, fra il caldo, il vento, la pioggia, e l’odore del mare, lo stesso mare. Ora fisso Davide, a qualche metro più avanti, e improvvisamente mi sembra uguale a me, anche lui con la sua bici, anche lui perso nello stesso attimo di bellezza.
Davide: Mentre ingoio salsedine a pieni polmoni, mi concedo il piacere di osservare. La bicicletta è il mezzo giusto per guardare, per guardare il tuo viaggio che si costruisce sotto le tue ruote, che si crea nello stesso momento in cui lo stai vivendo. E mentre pedalo e bevo nuovo ossigeno dal mare, mi volto indietro ad osservare Giuseppe. Se la felicità potesse avere un volto, e soprattutto una barba e un sorriso da trentadue denti, penso che la felicità si chiamerebbe Giuseppe: lo vedo libero, libero di stupirsi, libero di sorridere e di smarrirsi in quello che ha davanti; lo vedo così e penso sia quella la faccia della felicità. Perché quando decidi di partire con la tua bici, e con quel poco che ti può servire legato dietro al sellino, capisci che basta davvero poco per essere felici, che un tramonto può essere davvero come una poesia, che i gabbiani sono bellissimi e le stelle pure, che l’alba è davvero l’eterno inizio di qualcosa di nuovo, che rifiutarsi di affrontare il vento significa indietreggiare e non avanzare, che non pedalare sotto la pioggia significa prendere freddo in attesa di una schiarita, che “accontentarsi” dello stretto indispensabile è bello, quando questo stretto indispensabile è formato da 24 ore di illimitata meraviglia […]
Continua a leggere: http://www.greenme.it/viaggiare/europa/italia/sicilia/11966-sicily-coast-to-coast
L’anno scorso io e il mio più caro amico, Davide Laganà, abbiamo compiuto in bici il giro della Sicilia (l’intero periplo). Siamo partiti da Capo d’Orlando (ME) con un budget di 200 euro, che comprendeva anche l’attrezzatura del viaggio, il tutto spinto dalla semplice voglia di compiere quest’avventura, e questo è il nostro racconto.
Giuseppe: Ho i polpacci in tensione. Mi fanno male. Il sole è caldo. Caldissimo. Qui il mezzogiorno di maggio è come il primo pomeriggio di ferragosto: infuocato. L’asfalto assorbe i raggi solari e li sputa contro le mie ruote. Li sento risalire, entrano nella mia maglietta. Tengo la testa bassa sul manubrio. Pedalo automaticamente, ma a fatica. Anche l’abitudine si stanca in salita, e questa salita sembra non finire più. Ma quante salite ci sono in Sicilia? Per un istante mi sento come pentito. È un’immagine istantanea: vedo il divano di casa mia, una limonata ghiacciata, lo stereo acceso; il lusso dell’ozio. È un secondo di ripensamenti. Ma è uno soltanto e lo dimentico subito, lo elimino subito. Mi basta poco per farlo. Mi basta superare una curva e perdermi nella meraviglia: alzo la testa e le mie pupille si restringono, inondate dalla luce. Adesso davanti al mio naso c’è una macchia blu infinita che respira piatta, lenta, con un ritmo fuori dal tempo: il mare calmo, che brilla sotto la luce, che è di mille colori ed è sempre blu, ed è sempre bello, ed è sempre lo stesso mare che sta viaggiando con me da quando ho lasciato Capo d’Orlando; è lo stesso mare che sta tracciando con me il perimetro della mia isola. Lui cammina sulle onde, fra la sabbia, fra gli scogli delle coste. Io cammino sulla mia bicicletta, fra il caldo, il vento, la pioggia, e l’odore del mare, lo stesso mare. Ora fisso Davide, a qualche metro più avanti, e improvvisamente mi sembra uguale a me, anche lui con la sua bici, anche lui perso nello stesso attimo di bellezza.
Davide: Mentre ingoio salsedine a pieni polmoni, mi concedo il piacere di osservare. La bicicletta è il mezzo giusto per guardare, per guardare il tuo viaggio che si costruisce sotto le tue ruote, che si crea nello stesso momento in cui lo stai vivendo. E mentre pedalo e bevo nuovo ossigeno dal mare, mi volto indietro ad osservare Giuseppe. Se la felicità potesse avere un volto, e soprattutto una barba e un sorriso da trentadue denti, penso che la felicità si chiamerebbe Giuseppe: lo vedo libero, libero di stupirsi, libero di sorridere e di smarrirsi in quello che ha davanti; lo vedo così e penso sia quella la faccia della felicità. Perché quando decidi di partire con la tua bici, e con quel poco che ti può servire legato dietro al sellino, capisci che basta davvero poco per essere felici, che un tramonto può essere davvero come una poesia, che i gabbiani sono bellissimi e le stelle pure, che l’alba è davvero l’eterno inizio di qualcosa di nuovo, che rifiutarsi di affrontare il vento significa indietreggiare e non avanzare, che non pedalare sotto la pioggia significa prendere freddo in attesa di una schiarita, che “accontentarsi” dello stretto indispensabile è bello, quando questo stretto indispensabile è formato da 24 ore di illimitata meraviglia […]
Continua a leggere: http://www.greenme.it/viaggiare/europa/italia/sicilia/11966-sicily-coast-to-coast
venerdì 13 dicembre 2013
Le avventure del ‘trucido’ e altro ancora
Oh, ieri la Sarina mi ha scritto su FB: “Quando la casa è pronta devi venire a trovarci”. Risposta: “Certo, ho già pronte le borse. Penso di fermarmi due-tre mesi”. E lei: “Ma anche no: un week-end va bene…”.
Uhè, auguri vecchio petomane…! Senti, io ho già tutto, badante, trespolo per la flebo, padella e pappagallo, pomata per i pidocchi inguinali (25mila unità), una buona scorta di pannoloni doppia resistenza…! Se ti serve una consulenza fammi un fischio. Ma forte che ormai sono quasi completamente sordo…
A proposito della Festa dei Morti: “Aòh, io nun c’ho tarmente voja de fa’ ‘n cazzo, che nun me va manco de mori’…
Come diceva giustamente Pozzetto: “Il matrimonio è una cosa esagerata: è come se uno che ha fame si comprasse un ristorante”.
Ah che sole, che pacchia, che relax, che nullafacenza…! Se penso che da lunedì riprendo servizio mi sento male. Devo assolutamente trovare un’anziana danarosa tra le mie conoscenze, magari una nonna di qualche alunna…!
Nooo, è stato invitato anche gambette corte su in montagna. Me lo ritroverò sempre tra le palle e andrà a finire che dovrò pure dividere il letto con lui. E per tutta la notte mi allieterà con i suoi orribili peti…
Cazzo, digli – anche abbastanza infastidito – che vai in montagna per cambiare aria e non hai piacere a respirare la sua…
Seduto al mio bar di Minturno e preso da improvviso entusiasmo, ordino un Jack Daniels. La ragazza mi chiede: “Mezzo o intero?”. Ed io: “Per il demonio, intero…!”. Al che, per soli due euro, mi versa una dose di whisky spaventosa, che a digiuno come sono, mi sarà letale…! Buono però.
Ieri ho speso quindici euro per una bottiglia di tequila messicana, cento per cento distillato d’agave. Mi era sembrata una buona idea, molto esotica. A sera ne ho versato un bicchierino e, ancor prima di suggerne l’ambito sapore, ho capito il mio errore: puro petrolio. Per non dilapidare il patrimonio l’ho bevuto fino in fondo e, stamattina, ne ho pagato il fio con un atroce mal di testa. Morale: mai lasciare la strada del whisky.
Eh eh eh…, questa storia che per Capodanno ce vònno ‘n par de piotte me fa sbellicare dalle risate. Comunque, se andate in macchina e dividete le spese vi costa molto meno. Se poi il brodo lo fate mettere al trucido (come sarebbe giusto…) allora vi costa ancora meno. Ad ogni modo ‘n par de piotte ce vònno tutte: piene piene…!
Il problema è che io er grano all’ostello non jo ‘o vojo da’. Che dichi, faccio caccia’ tutto ar trucido?
Ma non doveva pagare il trucido? Sarebbe meglio che anticipasse lui poi non gli restituiamo nulla: me pare logico. Comunque quando arriviamo ci mettiamo d’accordo e je levamo ‘n par de piotte a poker…
Prima di anticipare tu la moneta, vedi se c’è la possibilità che sia il trucido ad anticipare, che diamine. Fateje mette’ a machina e pure er brodo e l’autostrada; e pure panini e birre durante er viaggio. E poi, per ringraziamento, dateje ‘na bastonata col legno de rovere…
Sarò stronzo, ma a sto punto ognuno s’arrangi da solo per il viaggio…
Va a finire che noi scennemo in machina, mentre er trucido vie’ cor treno: così sa ‘a pija ‘n saccoccia…!
Aòh, sor Giova’, Eduardo è persona affidabile ed efficiente, sicuramente molto diverso dal trucido. Appena avrà sganciato er grano fammi sapere: sennò er treno, nu’ lo becco più…
‘sto trucido…, me sa ch’è pure de Berlusconi: ‘a faccia ce l’ha. Tocca levaje ‘n par de piotte a poker: poi vedi come comincia a piagne ‘sto bove…
Sono in fila davanti al pannello degli sportelli della biglietteria. C’è un via vai pazzesco, ma con lo smistamento elettronico le cose sono migliorate. Inoltre su 18 sportelli, ben 13 sono aperti: un evento davvero eccezionale. Si capisce da questo che siamo sotto Natale. Ci sono un sacco di addobbi natalizi, alberi, luci, nastrini, palle colorate. Però or ora m’è arrivata ‘na fiala che m’ha ucciso e ha distrutto tutta la poesia…
Quante monete hai cacciato per il bijetto? Aòh, stamane sur busse un sordido “artigliere” in incognita ha allentato i pertugi: ‘na vecchia s’è sentita male…!
E ma basta, sui mezzi pubblici non si può più salire: dei cessi ambulanti dove regna l’anarchia e dove ognuno si sente libero di espellere i propri venti impunemente…! Io compreso, naturalmente.
Uhè, auguri vecchio petomane…! Senti, io ho già tutto, badante, trespolo per la flebo, padella e pappagallo, pomata per i pidocchi inguinali (25mila unità), una buona scorta di pannoloni doppia resistenza…! Se ti serve una consulenza fammi un fischio. Ma forte che ormai sono quasi completamente sordo…
A proposito della Festa dei Morti: “Aòh, io nun c’ho tarmente voja de fa’ ‘n cazzo, che nun me va manco de mori’…
Come diceva giustamente Pozzetto: “Il matrimonio è una cosa esagerata: è come se uno che ha fame si comprasse un ristorante”.
Ah che sole, che pacchia, che relax, che nullafacenza…! Se penso che da lunedì riprendo servizio mi sento male. Devo assolutamente trovare un’anziana danarosa tra le mie conoscenze, magari una nonna di qualche alunna…!
Nooo, è stato invitato anche gambette corte su in montagna. Me lo ritroverò sempre tra le palle e andrà a finire che dovrò pure dividere il letto con lui. E per tutta la notte mi allieterà con i suoi orribili peti…
Cazzo, digli – anche abbastanza infastidito – che vai in montagna per cambiare aria e non hai piacere a respirare la sua…
Seduto al mio bar di Minturno e preso da improvviso entusiasmo, ordino un Jack Daniels. La ragazza mi chiede: “Mezzo o intero?”. Ed io: “Per il demonio, intero…!”. Al che, per soli due euro, mi versa una dose di whisky spaventosa, che a digiuno come sono, mi sarà letale…! Buono però.
Ieri ho speso quindici euro per una bottiglia di tequila messicana, cento per cento distillato d’agave. Mi era sembrata una buona idea, molto esotica. A sera ne ho versato un bicchierino e, ancor prima di suggerne l’ambito sapore, ho capito il mio errore: puro petrolio. Per non dilapidare il patrimonio l’ho bevuto fino in fondo e, stamattina, ne ho pagato il fio con un atroce mal di testa. Morale: mai lasciare la strada del whisky.
Eh eh eh…, questa storia che per Capodanno ce vònno ‘n par de piotte me fa sbellicare dalle risate. Comunque, se andate in macchina e dividete le spese vi costa molto meno. Se poi il brodo lo fate mettere al trucido (come sarebbe giusto…) allora vi costa ancora meno. Ad ogni modo ‘n par de piotte ce vònno tutte: piene piene…!
Il problema è che io er grano all’ostello non jo ‘o vojo da’. Che dichi, faccio caccia’ tutto ar trucido?
Ma non doveva pagare il trucido? Sarebbe meglio che anticipasse lui poi non gli restituiamo nulla: me pare logico. Comunque quando arriviamo ci mettiamo d’accordo e je levamo ‘n par de piotte a poker…
Prima di anticipare tu la moneta, vedi se c’è la possibilità che sia il trucido ad anticipare, che diamine. Fateje mette’ a machina e pure er brodo e l’autostrada; e pure panini e birre durante er viaggio. E poi, per ringraziamento, dateje ‘na bastonata col legno de rovere…
Sarò stronzo, ma a sto punto ognuno s’arrangi da solo per il viaggio…
Va a finire che noi scennemo in machina, mentre er trucido vie’ cor treno: così sa ‘a pija ‘n saccoccia…!
Aòh, sor Giova’, Eduardo è persona affidabile ed efficiente, sicuramente molto diverso dal trucido. Appena avrà sganciato er grano fammi sapere: sennò er treno, nu’ lo becco più…
‘sto trucido…, me sa ch’è pure de Berlusconi: ‘a faccia ce l’ha. Tocca levaje ‘n par de piotte a poker: poi vedi come comincia a piagne ‘sto bove…
Sono in fila davanti al pannello degli sportelli della biglietteria. C’è un via vai pazzesco, ma con lo smistamento elettronico le cose sono migliorate. Inoltre su 18 sportelli, ben 13 sono aperti: un evento davvero eccezionale. Si capisce da questo che siamo sotto Natale. Ci sono un sacco di addobbi natalizi, alberi, luci, nastrini, palle colorate. Però or ora m’è arrivata ‘na fiala che m’ha ucciso e ha distrutto tutta la poesia…
Quante monete hai cacciato per il bijetto? Aòh, stamane sur busse un sordido “artigliere” in incognita ha allentato i pertugi: ‘na vecchia s’è sentita male…!
E ma basta, sui mezzi pubblici non si può più salire: dei cessi ambulanti dove regna l’anarchia e dove ognuno si sente libero di espellere i propri venti impunemente…! Io compreso, naturalmente.
mercoledì 11 dicembre 2013
L’epilogo scontato delle anime nobili
Sabato sera scorso, essendo in condizioni fisiche tutt’altro che ottimali (mal di gola da urlo e qualche linea di febbre), me ne sono rimasto a casa. E la qual cosa non mi è affatto dispiaciuta, anche perché fuori faceva - e fa - un freddo becco e poi c’è quella bella nebbiona che ti fa arretrare ancor prima di mettere mano alle chiavi per aprire la porta. Da noi, nella bassa padana quando c’è la nebbia, quella vera, non si vede proprio un bel niente, e viaggiare in automobile è un’esperienza al limite della fantascienza. Alle volte la coltre è così spessa che si fa fatica a vedere non solo la strada, ma addirittura la linea di mezzeria. E la cosa crea un tale stato di stordimento sensoriale, che si perde quasi completamente il senso dell’orientamento: “Oddio, e ora dove siamo finiti?”. Una volta ricordo che ero al ginnasio, e c’era una nebbia apocalittica. In classe entrò la professoressa di inglese - una fervida attivista di Azione Cattolica - e disse: «Accidenti, dalla statale non si vedeva neanche la scuola». Al che pensai tra me e me: “Peccato che alla fine poi l’hai trovata…”. In effetti non amavo alla follia quest’insegnante, e non mi sarebbe dispiaciuto sfangarmi la sua bella ora di lezione. Poi però, come rapita da un momento di estasi, aggiunse: «Ecco, Dio è un po’ come la scuola oggi: non si vede, ma sai che c’è…». Mi piacque quel paragone: tant’è che oggi, a distanza di quasi trent’anni ancora me lo ricordo nitidamente.
Ma tornando a sabato scorso, il punto era come trascorrere la serata. Sul comodino c’era Cent’anni di solitudine, un mostruoso mattone, a cui - nel corso degli anni - ho provato più e più volte di dare l’assalto (mi piacerebbe sapere se c’è qualcuno a cui è piaciuto questo “capolavoro” valso il Nobel per la letteratura a Marquez…). Ho provato a leggere qualche pagina, ma alla trentaquattresima volta che l’autore nominava Aureliano Buendia, alternato a Josè Arcadio Buendia, alle prese entrambi con le loro mortifere vicende, ho chiuso tutto e ho spento l’abatjour. E così ho guardato un po’ di tele. Sul primo canale c’era un programma con una gara di ballo. Bello, interessate, per carità, pieno di musica e allegria: il classico show nazional-popolare che piace tanto agli italiani. Non c’era di meglio e così me lo sono sorbito tutto. La gara si è protratta fino ad oltre mezzanotte e, in un clima sempre più festoso, si è concluso con lo scontro finale: due coppie si dovevano sfidare su una serie di balli di diverse discipline (jive, rumba, merengue etc…) ed il pubblico era chiamato - tramite l’ormai immancabile televoto - a decretare quale fosse la coppia migliore. Ebbene, come poi si è capito dalla dinamica della gara, ogni coppia doveva “chiamare” il ballo che poi la coppia avversaria era tenuta ad eseguire, e questo nell’ottica di mettere il più possibile in difficoltà l’avversario: d’altra parte, non è che tutti sappiamo fare tutto, e al meglio. Ebbene, la prima coppia ha preso alla lettera la faccenda, ed ha infierito in maniera (agonisticamente) spietata nei confronti dell’altra, costringendola a dei balli per i quali non era proprio portata. L’altra coppia, invece, ha ragionato in maniera più decubertiana, ovvero “perché mai dovrei metterti in difficoltà? Giochiamocela sul nostro meglio, non sul nostro peggio”. Morale, e per farla breve, il pubblico ha premiato la coppia dei più furbi e agguerriti. Com’era immaginabile. E questo non perché essi fossero i più bravi - erano tutti eccellenti ballerini, per quel che ne possa capire - , ma perché gli avversari hanno concesso loro di esibirsi sui loro pezzi forti.
Osservando queste differenti manifestazioni dell’animo umano mi è venuto in mente un detto che usava spesso ripetere Indro Montanelli: “La sconfitta è il blasone delle anime nobili”. Cosa vuol dire? L’anima nobile non ha come finalità quella di schiacciare l’avversario, non ha interesse a primeggiare, a mettersi in mostra. A lei basta il bel gesto, il vivere cortese, l’affrontare la competizione sul terreno della correttezza più totale, rispettando l’avversario più di se stessa. Se poi viene anche la vittoria, tanto meglio. A suo modo, l’anima nobile, è un talebano dell’etica e della morale, un personaggio intransigente con le regole che si è dato, e che rispetterebbe ad ogni costo. Nulla vale più del proprio onore così come nulla è più disonorevole che mettere volutamente in difficoltà il proprio avversario: “a te la scelta delle armi…”. Il che non vuol dire arrendersi in partenza, senza combattere. Tutt’altro. Proprio per questo atteggiamento di estremo altruismo infatti, l’anima nobile è costretta a battersi sovente con più impegno e in condizioni d’inferiorità, dovendo rincorre un vantaggio concesso all’avversario dalla propria correttezza incondizionata. A maggior ragione se poi l’avversario se ne approfitta giocando sporco. Per l’anima nobile cioè, si gareggia per vincere, ma non si vince ad ogni costo. Il che detto in un’epoca di assoluta deriva morale, in cui vige il principio del successo a prescindere, anche calpestando le più elementari regole sociali e civile, è quasi una bestemmia. Me ne rendo conto. E d’altra parte non riesco proprio a ragionare in maniera diversa: tra Ettore e Achille, scelgo il primo tutta la vita.
Ma tornando a sabato scorso, il punto era come trascorrere la serata. Sul comodino c’era Cent’anni di solitudine, un mostruoso mattone, a cui - nel corso degli anni - ho provato più e più volte di dare l’assalto (mi piacerebbe sapere se c’è qualcuno a cui è piaciuto questo “capolavoro” valso il Nobel per la letteratura a Marquez…). Ho provato a leggere qualche pagina, ma alla trentaquattresima volta che l’autore nominava Aureliano Buendia, alternato a Josè Arcadio Buendia, alle prese entrambi con le loro mortifere vicende, ho chiuso tutto e ho spento l’abatjour. E così ho guardato un po’ di tele. Sul primo canale c’era un programma con una gara di ballo. Bello, interessate, per carità, pieno di musica e allegria: il classico show nazional-popolare che piace tanto agli italiani. Non c’era di meglio e così me lo sono sorbito tutto. La gara si è protratta fino ad oltre mezzanotte e, in un clima sempre più festoso, si è concluso con lo scontro finale: due coppie si dovevano sfidare su una serie di balli di diverse discipline (jive, rumba, merengue etc…) ed il pubblico era chiamato - tramite l’ormai immancabile televoto - a decretare quale fosse la coppia migliore. Ebbene, come poi si è capito dalla dinamica della gara, ogni coppia doveva “chiamare” il ballo che poi la coppia avversaria era tenuta ad eseguire, e questo nell’ottica di mettere il più possibile in difficoltà l’avversario: d’altra parte, non è che tutti sappiamo fare tutto, e al meglio. Ebbene, la prima coppia ha preso alla lettera la faccenda, ed ha infierito in maniera (agonisticamente) spietata nei confronti dell’altra, costringendola a dei balli per i quali non era proprio portata. L’altra coppia, invece, ha ragionato in maniera più decubertiana, ovvero “perché mai dovrei metterti in difficoltà? Giochiamocela sul nostro meglio, non sul nostro peggio”. Morale, e per farla breve, il pubblico ha premiato la coppia dei più furbi e agguerriti. Com’era immaginabile. E questo non perché essi fossero i più bravi - erano tutti eccellenti ballerini, per quel che ne possa capire - , ma perché gli avversari hanno concesso loro di esibirsi sui loro pezzi forti.
Osservando queste differenti manifestazioni dell’animo umano mi è venuto in mente un detto che usava spesso ripetere Indro Montanelli: “La sconfitta è il blasone delle anime nobili”. Cosa vuol dire? L’anima nobile non ha come finalità quella di schiacciare l’avversario, non ha interesse a primeggiare, a mettersi in mostra. A lei basta il bel gesto, il vivere cortese, l’affrontare la competizione sul terreno della correttezza più totale, rispettando l’avversario più di se stessa. Se poi viene anche la vittoria, tanto meglio. A suo modo, l’anima nobile, è un talebano dell’etica e della morale, un personaggio intransigente con le regole che si è dato, e che rispetterebbe ad ogni costo. Nulla vale più del proprio onore così come nulla è più disonorevole che mettere volutamente in difficoltà il proprio avversario: “a te la scelta delle armi…”. Il che non vuol dire arrendersi in partenza, senza combattere. Tutt’altro. Proprio per questo atteggiamento di estremo altruismo infatti, l’anima nobile è costretta a battersi sovente con più impegno e in condizioni d’inferiorità, dovendo rincorre un vantaggio concesso all’avversario dalla propria correttezza incondizionata. A maggior ragione se poi l’avversario se ne approfitta giocando sporco. Per l’anima nobile cioè, si gareggia per vincere, ma non si vince ad ogni costo. Il che detto in un’epoca di assoluta deriva morale, in cui vige il principio del successo a prescindere, anche calpestando le più elementari regole sociali e civile, è quasi una bestemmia. Me ne rendo conto. E d’altra parte non riesco proprio a ragionare in maniera diversa: tra Ettore e Achille, scelgo il primo tutta la vita.
... e continuiamo sul tema natalizio
Restando in tema, ecco un bell’articolo scritto da Mirella Serri e comparso oggi sul sito de La Stampa:
Dal Medioevo a Bach, da Bing Crosby a John Lennon i più popolari inni natalizi in un libro da leggere e ascoltare
“Che meraviglia! È il il 21 dicembre 1933 e al Radio City Music Hall del Rockfeller Center - dove è stato eretto il primo albero di Natale della storia di New York (solo sei metri, una miseria rispetto ai giorni nostri) - si inaugura uno spettacolo ideato da Vincent Minnelli. Tra soldatini di legno, un balletto di giocattoli, Fred Astaire e Ginger Rogers che volteggiano sul grande schermo alternati a The Night Before Christmas di Walt Disney, c’è pure un presepe vivente. Gli americani che stanno uscendo dal buio della grande Depressione hanno voglia di luci, divertimenti e consumi anche nei giorni che dovrebbero essere tra i più intimi e raccolti.
Non c’è più religione, è il caso di dirlo: ha iniziato la Coca-Cola a utilizzare Santa Claus per la sua pubblicità, eliminando ogni divisione tra sacro e profano, e vanno per la maggiore i canti natalizi che celebrano la festività in modo del tutto anomalo, fuori dei canoni tradizionali della liturgia religiosa: come Winter Wonderland (con pupazzi di neve e guance rosse come mele, a tutt’oggi vanta oltre 200 versioni di successo) o Santa Claus Is Coming to Town (dedicata all’arrivo di Babbo Natale, si è meritata nel tempo le esecuzioni di Ella Fitzgerald, Frank Sinatra, Bruce Springsteen, Ray Charles, Cristina D’Avena, Justin Bieber, Andrea Bocelli). Un po’ di tempo più tardi, nel 1935, nei giorni a ridosso dell’arrivo del Bambinello, una nuova bomba musicale investe il popolo a stelle e strisce: Jingle Bells, nata a metà dell’Ottocento, viene riproposta in chiave swing da Benny Goodman. Parla di slitte trainate da cavalli e di sonagli, ma diventa l’inno e la bandiera della Natività. Sarà in classifica per decenni, seconda solo a White Christmas. Quest’ultimo componimento, con la voce calda di Bing Crosby, diverrà la canzone dedicata alla santa ricorrenza più venduta al mondo con i suoi 50 milioni di esemplari, intonata da Lady Gaga come da Zucchero, da Laura Pausini come dai Beach Boys e Elton John. A farci scoprire questa incredibile vitalità dei Canti di Natale (Donzelli editore, sottotitolo Da «Jingle Bells» a Lady Gaga, con il QR code per scaricare i brani) è Paolo Prato, esperto di musica e culture giovanili. In una lunga cavalcata che va dall’epoca precristiana ai cori medievali, da Bach, Händel, Mendelssohn, Berlioz, Saint-Saëns a Sting, Paul McCartney, John Lennon, Placido Domingo, Louis Armstrong, Francesco De Gregori, lo studioso racconta le trasformazioni di un immenso repertorio di musiche popolari che, ideate per celebrare il Natale, eseguite nelle chiese, adottate dal clero, vengono continuamente rivisitate, diventano incredibili fenomeni dell’etere, si laicizzano e continuano a essere i simboli dell’avvenimento più importante della cristianità. Il celebre «Tu scendi dalle stelle / o Re del Cielo», che in questi giorni dilaga per strade e piazze eseguito dagli zampognari, era un inno composto da sant’Alfonso Maria de’ Liguori a metà del Settecento, per fare proselitismo religioso. Tramite il pio salmo (versione italiana del napoletano Quanno nascette Ninno) il santo voleva diffondere parole di fede e di probità per «rimediare al gran male che facevano le canzonette laide». I componimenti che sono all’origine della stragrande maggioranza di tanti moderni inni, le carole, provengono dal mondo anglosassone. Erano nate come accompagnamenti musicali per i gruppi di questuanti che andavano di casa in casa e annunciavano l’avvenimento di Betlemme. Non profumavano di incenso e di abiti talari, ma di tacchino arrosto e di birra bollente, che erano i doni con cui venivano ricompensate le allegre brigate inneggianti all’approdo in terra del figlio di Dio. Le carole segnano l’apoteosi del Natale come festa per eccellenza della famiglia e si conquisteranno un’immensa popolarità con la molteplicità dei loro significati. Come portatrici di messaggi di concordia, per esempio: così O santa notte, scritto da Placide Cappeau per la messa di mezzanotte, assai poco apprezzato dai vescovi francesi, divenne il canto-colomba di pace la sera del 24 dicembre 1870, durante il conflitto franco-prussiano: un soldato francese uscì dalla trincea per intonarlo e poi, mentre le armi tacevano, fu la volta di un tedesco. La famosissima Stille Nacht, che esordisce in Austria a dicembre del 1818, otterrà invece una strepitosa affermazione grazie a un pastore episcopale, John Freeman Young, che, con la traduzione in inglese da lui eseguita, ne amplificherà la fama fino a portarla a un totale di 30 milioni di copie vendute. Il segreto di questo tratto assolutamente imperituro dei canti di Natale? Gli inni condividono con la festività che rappresentano, spiega Prato, la straordinaria capacità di rinnovarsi passando da un contesto liturgico alla cultura popolare e poi al consumo di massa. Ascoltare per credere. Bianco Natale trilla sullo smartphone più vicino e da lontano risponde lo squillo di un altro telefonino: Tu scendi dalle stelle”.
Fonte: http://www.lastampa.it/2013/12/11/cultura/tu-canti-dalle-stelle-cP3pham0KmOgxstbow15JL/pagina.html
Dal Medioevo a Bach, da Bing Crosby a John Lennon i più popolari inni natalizi in un libro da leggere e ascoltare
“Che meraviglia! È il il 21 dicembre 1933 e al Radio City Music Hall del Rockfeller Center - dove è stato eretto il primo albero di Natale della storia di New York (solo sei metri, una miseria rispetto ai giorni nostri) - si inaugura uno spettacolo ideato da Vincent Minnelli. Tra soldatini di legno, un balletto di giocattoli, Fred Astaire e Ginger Rogers che volteggiano sul grande schermo alternati a The Night Before Christmas di Walt Disney, c’è pure un presepe vivente. Gli americani che stanno uscendo dal buio della grande Depressione hanno voglia di luci, divertimenti e consumi anche nei giorni che dovrebbero essere tra i più intimi e raccolti.
Non c’è più religione, è il caso di dirlo: ha iniziato la Coca-Cola a utilizzare Santa Claus per la sua pubblicità, eliminando ogni divisione tra sacro e profano, e vanno per la maggiore i canti natalizi che celebrano la festività in modo del tutto anomalo, fuori dei canoni tradizionali della liturgia religiosa: come Winter Wonderland (con pupazzi di neve e guance rosse come mele, a tutt’oggi vanta oltre 200 versioni di successo) o Santa Claus Is Coming to Town (dedicata all’arrivo di Babbo Natale, si è meritata nel tempo le esecuzioni di Ella Fitzgerald, Frank Sinatra, Bruce Springsteen, Ray Charles, Cristina D’Avena, Justin Bieber, Andrea Bocelli). Un po’ di tempo più tardi, nel 1935, nei giorni a ridosso dell’arrivo del Bambinello, una nuova bomba musicale investe il popolo a stelle e strisce: Jingle Bells, nata a metà dell’Ottocento, viene riproposta in chiave swing da Benny Goodman. Parla di slitte trainate da cavalli e di sonagli, ma diventa l’inno e la bandiera della Natività. Sarà in classifica per decenni, seconda solo a White Christmas. Quest’ultimo componimento, con la voce calda di Bing Crosby, diverrà la canzone dedicata alla santa ricorrenza più venduta al mondo con i suoi 50 milioni di esemplari, intonata da Lady Gaga come da Zucchero, da Laura Pausini come dai Beach Boys e Elton John. A farci scoprire questa incredibile vitalità dei Canti di Natale (Donzelli editore, sottotitolo Da «Jingle Bells» a Lady Gaga, con il QR code per scaricare i brani) è Paolo Prato, esperto di musica e culture giovanili. In una lunga cavalcata che va dall’epoca precristiana ai cori medievali, da Bach, Händel, Mendelssohn, Berlioz, Saint-Saëns a Sting, Paul McCartney, John Lennon, Placido Domingo, Louis Armstrong, Francesco De Gregori, lo studioso racconta le trasformazioni di un immenso repertorio di musiche popolari che, ideate per celebrare il Natale, eseguite nelle chiese, adottate dal clero, vengono continuamente rivisitate, diventano incredibili fenomeni dell’etere, si laicizzano e continuano a essere i simboli dell’avvenimento più importante della cristianità. Il celebre «Tu scendi dalle stelle / o Re del Cielo», che in questi giorni dilaga per strade e piazze eseguito dagli zampognari, era un inno composto da sant’Alfonso Maria de’ Liguori a metà del Settecento, per fare proselitismo religioso. Tramite il pio salmo (versione italiana del napoletano Quanno nascette Ninno) il santo voleva diffondere parole di fede e di probità per «rimediare al gran male che facevano le canzonette laide». I componimenti che sono all’origine della stragrande maggioranza di tanti moderni inni, le carole, provengono dal mondo anglosassone. Erano nate come accompagnamenti musicali per i gruppi di questuanti che andavano di casa in casa e annunciavano l’avvenimento di Betlemme. Non profumavano di incenso e di abiti talari, ma di tacchino arrosto e di birra bollente, che erano i doni con cui venivano ricompensate le allegre brigate inneggianti all’approdo in terra del figlio di Dio. Le carole segnano l’apoteosi del Natale come festa per eccellenza della famiglia e si conquisteranno un’immensa popolarità con la molteplicità dei loro significati. Come portatrici di messaggi di concordia, per esempio: così O santa notte, scritto da Placide Cappeau per la messa di mezzanotte, assai poco apprezzato dai vescovi francesi, divenne il canto-colomba di pace la sera del 24 dicembre 1870, durante il conflitto franco-prussiano: un soldato francese uscì dalla trincea per intonarlo e poi, mentre le armi tacevano, fu la volta di un tedesco. La famosissima Stille Nacht, che esordisce in Austria a dicembre del 1818, otterrà invece una strepitosa affermazione grazie a un pastore episcopale, John Freeman Young, che, con la traduzione in inglese da lui eseguita, ne amplificherà la fama fino a portarla a un totale di 30 milioni di copie vendute. Il segreto di questo tratto assolutamente imperituro dei canti di Natale? Gli inni condividono con la festività che rappresentano, spiega Prato, la straordinaria capacità di rinnovarsi passando da un contesto liturgico alla cultura popolare e poi al consumo di massa. Ascoltare per credere. Bianco Natale trilla sullo smartphone più vicino e da lontano risponde lo squillo di un altro telefonino: Tu scendi dalle stelle”.
Fonte: http://www.lastampa.it/2013/12/11/cultura/tu-canti-dalle-stelle-cP3pham0KmOgxstbow15JL/pagina.html
lunedì 9 dicembre 2013
Babbo Natale o Santa Lucia: chi porta i regali?
Natale si avvicina, e con esso arriverà anche quel vecchio panciuto che si ostina ad indossare un’improbabile divisa di panno rosso con i risvolti bianchi e quel cappello buffo da folletto dei boschi. Un personaggio di “peso” che, cospargendosi verosimilmente di vaselina, scenderà lungo le canne fumarie dei nostri camini e ci lascerà pacchi e pacchettini sotto l’albero (a seconda delle nostre disponibilità economiche, s’intende). E il mio parroco intanto si ostina a tuonare dal pulpito: “Basta con questo Babbo Natale…! Smettetela di dire ai bambini che a Natale arriva Babbo Natale. A Natale nasce Gesù Bambino…”. Già, in effetti non è che abbia tutti i torti il buon Don Emilio…! Ma vallo a spiegare ai milioni di bambini che da giorni hanno scritto letterine indirizzate a ‘Babbo Natale - Circolo Polare Artico
FIN-96930 NAPAPIIRI - Finlandia’. E poi, ve l’immaginate che colpo: «Babbo Natale non esiste…». E giù tutti a piangere…!
Ma come nasce Babbo Natale, e come arriva a travestirsi così da pagliaccio? Ecco un bel resoconto dettagliato apparso ieri sul sito dell’Adn-Kronos:
“Vestito rosso, barba bianca e stivali: il Santa Claus ‘moderno’ compie 190 anni - Perennemente in sovrappeso, rubicondo, con la folta barba bianca, il vestito rosso bordato di candida pelliccia, e gli stivali, alla guida della sua slitta trainata da renne, con l’inseparabile sacco colmo di doni. Il Babbo Natale ‘moderno’ compie 190 anni, non ha mai cambiato look e di sicuro non lo cambierà mai più. Santa Claus è una figura antica, che si fa risalire alla leggenda di San Nicola di Myra, vescovo cristiano del IV secolo. Ma la trasformazione nella figura che oggi conosciamo si deve a Clement Clarke Moore, scrittore e linguista newyorkese, autore della poesia, pubblicata nel 1823, ‘A visit from Saint Nicholas’, nella quale il vescovo dell’Anatolia è rappresentato come un elfo “rotondetto”, con barba bianca, vestiti rossi orlati di pelliccia, alla guida di una slitta trainata da renne, carico di regali e giocattoli. Il look di Babbo Natale si perfeziona con il passare degli anni: nel 1862 l’illustratore Thomas Nast, sulla rivista statunitense Harper’s Weekly, lo raffigura con una giacca rossa, folta barba bianca e stivali. Da quel momento, la fisionomia di Santa Claus non cambierà, diventando ‘globale’ dal 1931, quando Haddon Sundblom disegna l’ormai celeberrima immagine di Babbo Natale per la pubblicità della Coca Cola. Che si chiami Santa Claus, Pere Noel o Sinterklaas, a seconda della latitudine, tutte le versioni del Babbo Natale moderno derivano dallo stesso personaggio storico, il vescovo, poi divenuto santo, San Nicola di Bari, o semplicemente Nicola della città di Myra, un’antica città dell’odierna Turchia. Attorno a questo personaggio sono nate molte leggende. Tutte, però, con un comune denominatore: la generosità di Nicola, nato in una ricca famiglia, ma rimasto presto orfano e cresciuto dai frati di un monastero. Di lui si racconta, ad esempio, che ritrovò e riportò in vita cinque fanciulli che erano stati rapiti e uccisi da un oste. Un miracolo che gli valse la fama di protettore dei bambini. Nicola di Myra è un personaggio leggendario anche per la sua generosità, che lo spinse a donare ai bambini poveri della sua città tutte le ricchezze della sua famiglia, distribuendo l’oro accumulato dal padre e conservato in grandi sacchi. Come quelli che il Babbo natale ‘moderno’ usa per trasportare nelle case di tutto il mondo i doni per i bambini. Ma se il capostipite di tutti i Babbo Natale del mondo resta il santo dell’Anatolia, altre figure hanno popolato nei secoli l’immaginario natalizio. Come quella che appartiene alla tradizione di alcune tribù germaniche, dopo la conversione al cristianesimo, che narra di un uomo in lotta con un demone che terrorizzava la popolazione insinuandosi nelle case attraverso la canna fumaria per uccidere i bambini. Catturato dal supereroe ante litteram, il mostro è obbligato a obbedire ai suoi ordini e costretto a passare di casa in casa per fare ammenda portando dei doni ai bambini. Una buona azione riparatoria ripetuta ogni anno. In un’altra versione, il demone convertito raccoglie con sé gli altri elfi e folletti, diventando quel Babbo Natale che oggi conosciamo. C’è poi chi ‘esagera’. Come gli islandesi, che dicono di avere ben 13 Babbo Natale, perché la loro tradizione natalizia si basa su 13 folletti, chiamati Jo’lasveinar, i cui nomi (impronunciabili) derivano dal tipo di attività o di cibo che preferiscono. Una tradizione che fa felici i bambini islandesi, che ricevono ben 13 regali, uno per ogni giorno delle due settimane che precedono il Natale. In ogni caso, ai bambini islandesi va di lusso, se pensiamo che ai bimbi cattivi italiani Babbo Natale porta del carbone: se i piccoli scandinavi non sono stati buoni da meritarsi i regali, ricevono patate. Almeno non restano a stomaco vuoto”.
E di Santa Lucia che sappiamo? Non è un mistero che in alcune parti dell’Italia settentrionale, il 13 dicembre c’è l’usanza di regalare i doni ai bambini. Eppure Santa Lucia era di Siracusa. Ebbene, la vicenda affonda le radici nell’epoca tardo-imperiale. Santa Lucia venne martirizzata il 13 dicembre del 304 d.C. - regnante Diocleziano - e successivamente i Bizantini portarono le sue spoglie a Costantinopoli. Da qui i veneziani, a seguito del saccheggio del 1204, le condussero a Venezia, dove riposano definitivamente in una chiesa che si affaccia sul Canal Grande, nei pressi della stazione ferroviaria. Ebbene, narra la tradizione che, durante la Festa di Santa Lucia - una delle principali del tempo - , i nobili della Serenissima fossero usi regalare dei doni ai bambini più poveri della città. Col tempo questa usanza si diffuse in tutti i territori della Repubblica, ovvero fino al fiume Adda. Ed è così che oggi la tradizione dei doni a Santa Lucia è in voga in Veneto, nel Friuli, in parte del Trentino, nel bresciano, nel bergamasco e nel cremasco. “Per accrescere l’attesa dei bimbi - si legge su Wikipedia - è uso che i ragazzi più grandi, nelle sere precedenti, percorrano le strade suonando un campanello da messa e richiamando i piccoli al loro dovere di andare subito a letto, ad evitare che la santa li veda e li accechi, gettando cenere nei loro occhi. Allo scopo di ringraziare la santa è uso lasciare del cibo; solitamente delle arance, dei biscotti, caffè, mezzo bicchiere di vino rosso e del fieno, oppure farina gialla e sale, per l’asino che trasporta i doni (dalle mie parti invece, si mette solo un fascio di fieno appeso al cancello per l’asino : ndr). Il mattino del 13 dicembre, al loro risveglio, i bimbi troveranno un piatto con le arance e i biscotti consumati, arricchito di caramelle e monete di cioccolato. Inoltre, a volte nascosti nella casa, i doni che avevano richiesti e che sono dispensati totalmente o parzialmente, secondo il comportamento tenuto”.
Sono belle le tradizioni, non c’è che dire. In effetti però tutto ciò ha un piccolo svantaggio: nelle famiglie di origine meridionale come la mia, per esempio, vige ancora la tradizione del regalo a Natale. Se però i bambini non ricevono i doni a Santa Lucia, come i loro amichetti settentrionali da generazioni, ci restano male. Non resta dunque che pensare a due doni. A meno che i marmocchi si siano “comportati male” durante l’anno: in tal caso va bene anche il carbone. Per chi se la senta, naturalmente.
Ma come nasce Babbo Natale, e come arriva a travestirsi così da pagliaccio? Ecco un bel resoconto dettagliato apparso ieri sul sito dell’Adn-Kronos:
“Vestito rosso, barba bianca e stivali: il Santa Claus ‘moderno’ compie 190 anni - Perennemente in sovrappeso, rubicondo, con la folta barba bianca, il vestito rosso bordato di candida pelliccia, e gli stivali, alla guida della sua slitta trainata da renne, con l’inseparabile sacco colmo di doni. Il Babbo Natale ‘moderno’ compie 190 anni, non ha mai cambiato look e di sicuro non lo cambierà mai più. Santa Claus è una figura antica, che si fa risalire alla leggenda di San Nicola di Myra, vescovo cristiano del IV secolo. Ma la trasformazione nella figura che oggi conosciamo si deve a Clement Clarke Moore, scrittore e linguista newyorkese, autore della poesia, pubblicata nel 1823, ‘A visit from Saint Nicholas’, nella quale il vescovo dell’Anatolia è rappresentato come un elfo “rotondetto”, con barba bianca, vestiti rossi orlati di pelliccia, alla guida di una slitta trainata da renne, carico di regali e giocattoli. Il look di Babbo Natale si perfeziona con il passare degli anni: nel 1862 l’illustratore Thomas Nast, sulla rivista statunitense Harper’s Weekly, lo raffigura con una giacca rossa, folta barba bianca e stivali. Da quel momento, la fisionomia di Santa Claus non cambierà, diventando ‘globale’ dal 1931, quando Haddon Sundblom disegna l’ormai celeberrima immagine di Babbo Natale per la pubblicità della Coca Cola. Che si chiami Santa Claus, Pere Noel o Sinterklaas, a seconda della latitudine, tutte le versioni del Babbo Natale moderno derivano dallo stesso personaggio storico, il vescovo, poi divenuto santo, San Nicola di Bari, o semplicemente Nicola della città di Myra, un’antica città dell’odierna Turchia. Attorno a questo personaggio sono nate molte leggende. Tutte, però, con un comune denominatore: la generosità di Nicola, nato in una ricca famiglia, ma rimasto presto orfano e cresciuto dai frati di un monastero. Di lui si racconta, ad esempio, che ritrovò e riportò in vita cinque fanciulli che erano stati rapiti e uccisi da un oste. Un miracolo che gli valse la fama di protettore dei bambini. Nicola di Myra è un personaggio leggendario anche per la sua generosità, che lo spinse a donare ai bambini poveri della sua città tutte le ricchezze della sua famiglia, distribuendo l’oro accumulato dal padre e conservato in grandi sacchi. Come quelli che il Babbo natale ‘moderno’ usa per trasportare nelle case di tutto il mondo i doni per i bambini. Ma se il capostipite di tutti i Babbo Natale del mondo resta il santo dell’Anatolia, altre figure hanno popolato nei secoli l’immaginario natalizio. Come quella che appartiene alla tradizione di alcune tribù germaniche, dopo la conversione al cristianesimo, che narra di un uomo in lotta con un demone che terrorizzava la popolazione insinuandosi nelle case attraverso la canna fumaria per uccidere i bambini. Catturato dal supereroe ante litteram, il mostro è obbligato a obbedire ai suoi ordini e costretto a passare di casa in casa per fare ammenda portando dei doni ai bambini. Una buona azione riparatoria ripetuta ogni anno. In un’altra versione, il demone convertito raccoglie con sé gli altri elfi e folletti, diventando quel Babbo Natale che oggi conosciamo. C’è poi chi ‘esagera’. Come gli islandesi, che dicono di avere ben 13 Babbo Natale, perché la loro tradizione natalizia si basa su 13 folletti, chiamati Jo’lasveinar, i cui nomi (impronunciabili) derivano dal tipo di attività o di cibo che preferiscono. Una tradizione che fa felici i bambini islandesi, che ricevono ben 13 regali, uno per ogni giorno delle due settimane che precedono il Natale. In ogni caso, ai bambini islandesi va di lusso, se pensiamo che ai bimbi cattivi italiani Babbo Natale porta del carbone: se i piccoli scandinavi non sono stati buoni da meritarsi i regali, ricevono patate. Almeno non restano a stomaco vuoto”.
E di Santa Lucia che sappiamo? Non è un mistero che in alcune parti dell’Italia settentrionale, il 13 dicembre c’è l’usanza di regalare i doni ai bambini. Eppure Santa Lucia era di Siracusa. Ebbene, la vicenda affonda le radici nell’epoca tardo-imperiale. Santa Lucia venne martirizzata il 13 dicembre del 304 d.C. - regnante Diocleziano - e successivamente i Bizantini portarono le sue spoglie a Costantinopoli. Da qui i veneziani, a seguito del saccheggio del 1204, le condussero a Venezia, dove riposano definitivamente in una chiesa che si affaccia sul Canal Grande, nei pressi della stazione ferroviaria. Ebbene, narra la tradizione che, durante la Festa di Santa Lucia - una delle principali del tempo - , i nobili della Serenissima fossero usi regalare dei doni ai bambini più poveri della città. Col tempo questa usanza si diffuse in tutti i territori della Repubblica, ovvero fino al fiume Adda. Ed è così che oggi la tradizione dei doni a Santa Lucia è in voga in Veneto, nel Friuli, in parte del Trentino, nel bresciano, nel bergamasco e nel cremasco. “Per accrescere l’attesa dei bimbi - si legge su Wikipedia - è uso che i ragazzi più grandi, nelle sere precedenti, percorrano le strade suonando un campanello da messa e richiamando i piccoli al loro dovere di andare subito a letto, ad evitare che la santa li veda e li accechi, gettando cenere nei loro occhi. Allo scopo di ringraziare la santa è uso lasciare del cibo; solitamente delle arance, dei biscotti, caffè, mezzo bicchiere di vino rosso e del fieno, oppure farina gialla e sale, per l’asino che trasporta i doni (dalle mie parti invece, si mette solo un fascio di fieno appeso al cancello per l’asino : ndr). Il mattino del 13 dicembre, al loro risveglio, i bimbi troveranno un piatto con le arance e i biscotti consumati, arricchito di caramelle e monete di cioccolato. Inoltre, a volte nascosti nella casa, i doni che avevano richiesti e che sono dispensati totalmente o parzialmente, secondo il comportamento tenuto”.
Sono belle le tradizioni, non c’è che dire. In effetti però tutto ciò ha un piccolo svantaggio: nelle famiglie di origine meridionale come la mia, per esempio, vige ancora la tradizione del regalo a Natale. Se però i bambini non ricevono i doni a Santa Lucia, come i loro amichetti settentrionali da generazioni, ci restano male. Non resta dunque che pensare a due doni. A meno che i marmocchi si siano “comportati male” durante l’anno: in tal caso va bene anche il carbone. Per chi se la senta, naturalmente.
venerdì 6 dicembre 2013
Ciao Madiba (Mvezo, 18 luglio 1918 – Johannesburg, 5 dicembre 2013)
Ieri sera, mentre sulle nostre televisioni pubbliche e private, si blaterava stancamente dell’ultima sentenza della Corte Costituzionale - quella che ha dichiarato illegittima l’attuale legge elettorale che manda in Parlamento i rappresentanti del popolo da ben 8 anni - se n’è andato l’ultimo eroe tragico della nostra epoca. Nelson Mandela è morto in serata, all’età di 95 anni: una lunga vita a ricompensa dei 27 anni trascorsi in una cella di tre metri quadrati. Di fronte a questa Grande Storia che ci sfila accanto e se ne va, tutto ciò che ci scorre sotto gli occhi oggi, ovvero le miserabili vicende di una classe dirigente capace solo di preservare i propri vergognosi privilegi - mentre la nazione sprofonda nella miseria - ci lascia disgustati e senza parole.
Onore a Mandiba, un uomo che ha sacrificato tutta la vita per il suo popolo.
Leggo da Wikipedia:
Nelson Rolihlahla Mandela è stato un politico sudafricano, primo presidente a essere eletto dopo la fine dell’apartheid nel suo Paese e premio Nobel per la pace nel 1993 insieme al suo predecessore Frederik Willem de Klerk. Fu a lungo uno dei leader del movimento anti-apartheid ed ebbe un ruolo determinante nella caduta di tale regime, pur passando in carcere gran parte degli anni dell’attivismo anti-segregazionista. Protagonista insieme al presidente Frederik Willem de Klerk dell’abolizione dell’apartheid all’inizio degli anni Novanta, venne eletto presidente nel 1994, nelle prime elezioni multirazziali del Sudafrica, rimanendo in carica fino al 1999. Il suo partito, l’African National Congress, è rimasto da allora ininterrottamente al governo del paese. Mandela è il cognome assunto dal nonno. Il nome “Rolihlahla” (letteralmente “colui che provoca guai”) gli fu attribuito alla nascita; “Nelson” gli fu invece assegnato alle scuole elementari. Il nomignolo “Madiba” è il suo nome all’interno del clan di appartenenza, dell’etnia Xhosa. Nelson Mandela mosse i primissimi passi verso la conquista della libertà degli uomini nel 1941, all’età di ventidue anni, quando insieme al cugino Justice fu messo di fronte all’obbligo di doversi sposare con una ragazza scelta dal capo Thembu Dalindyebo. Questa imposizione di matrimonio combinato era una condizione che né Mandela né il cugino volevano tollerare. La scelta era molto delicata: o si sposava e andava contro il suo massimo principio, cioè la libertà, oppure non si sposava mancando così di rispetto alla sua tribù e alla famiglia. Così decise di scappare insieme al cugino, in direzione della città di Johannesburg. Da giovane studente di legge, Mandela fu coinvolto nell’opposizione al minoritario regime sudafricano, che negava i diritti politici, sociali, civili alla maggioranza nera sudafricana. Unitosi all’African National Congress (ANC) nel 1942, due anni dopo fondò l’associazione giovanile “Youth League”, insieme a Walter Sisulu, Oliver Tambo e altri. Dopo la vittoria elettorale del 1948 da parte del Partito Nazionale, autore di una politica pro-apartheid di segregazione razziale, Mandela si distinse nella campagna di resistenza del 1952 organizzata dall’ANC, ed ebbe un ruolo importante nell’assemblea popolare del 1955, la cui adozione della “Carta della Libertà” stabilì il fondamentale programma della causa anti-apartheid. Durante questo periodo Mandela e il suo compagno avvocato Oliver Tambo fondarono l’ufficio legale “Mandela e Tambo” fornendo assistenza gratuita o a basso costo a molti neri che sarebbero rimasti altrimenti senza rappresentanza legale. Inizialmente coinvolto nella battaglia di massa, fu arrestato insieme ad altre 150 persone il 5 dicembre 1956, e accusato di tradimento. Seguì un aggressivo processo, durato dal 1956 al 1961, al termine del quale tutti gli imputati furono assolti. Mandela e i suoi colleghi appoggiarono la lotta armata dopo l’uccisione di manifestanti disarmati a Sharpeville, nel marzo del 1960, e la successiva interdizione dell’ANC e di altri gruppi anti-apartheid. Nel 1958 aveva sposato in seconde nozze Winnie Madikizela, da cui poi si separò nel 1992. Nel 1961 divenne il comandante dell’ala armata “Umkhonto we Sizwe” dell’ANC (“Lancia della nazione”, o MK), della quale fu co-fondatore. Coordinò la campagna di sabotaggio contro l’esercito e gli obiettivi del governo, ed elaborò piani per una possibile guerriglia per porre fine all’apartheid. Raccolse anche fondi dall’estero per il MK, e dispose addestramenti para-militari, visitando vari governi africani. Nell’agosto 1962 fu arrestato dalla polizia sudafricana, in seguito a informazioni fornite dalla CIA, notizie che però lo stesso Mandela nella sua biografia ritiene non attendibili, e fu imprigionato per 5 anni con l’accusa di viaggi illegali all’estero e incitamento allo sciopero. Durante la sua prigionia, la polizia arrestò importanti capi dell’ANC, l’11 luglio 1963 presso la Liliesleaf Farm, di Rivonia. Mandela fu considerato fra i responsabili, e insieme ad altri fu accusato di sabotaggio e altri crimini equivalenti al tradimento (ma più facili per il governo da dimostrare). Joel Joffe, Arthur Chaskalson e George Bizos fecero parte della squadra di difesa che rappresentò gli accusati. Tutti, a eccezione di Rusty Bernstein, furono ritenuti colpevoli e condannati all’ergastolo, il 12 giugno 1964. L’imputazione includeva il coinvolgimento nell’organizzazione di azione armata, in particolare di sabotaggio (del cui reato Mandela si dichiarò colpevole) e la cospirazione per aver cercato di aiutare gli altri Paesi a invadere il Sudafrica (reato del quale Mandela si dichiarò invece non colpevole). Per tutti i successivi 26 anni, Mandela fu sempre maggiormente coinvolto nell’opposizione all’apartheid, e lo slogan “Nelson Mandela Libero” divenne l’urlo di tutte le campagne anti-apartheid del Mondo. Rifiutando un’offerta di libertà condizionata in cambio di una rinuncia alla lotta armata (febbraio 1985), Mandela rimase in prigione fino al febbraio del 1990. Le crescenti proteste dell’ANC e le pressioni della comunità internazionale portarono al suo rilascio l’11 febbraio 1990, su ordine del Presidente sudafricano F.W. de Klerk, e alla fine dell’illegalità per l’ANC. Mandela e de Klerk ottennero il Premio Nobel per la pace nel 1993. Mandela era già stato in precedenza premiato con il Premio Lenin per la pace nel 1962 e il Premio Sakharov per la libertà di pensiero nel 1988. Durante la sua detenzione, durata appunto 26-27 anni, Mandela lesse molti testi, poemi, poesie, liriche, libri in lingua afrikaner (olandese) e inglese, lingua che nel corso della detenzione imparò a perfezione conoscendo grammatica e parlato del gergo comune. In particolare come spiegò il presidente dopo l’elezione come capo-guida della Repubblica del Sud Africa, una poesia in inglese del poeta Britannico William Ernest Henley, del 1875, dal nome Invictus, dal latino “invitto”, o “invincibile” della raccolta Vita e Morte (Echi), pubblicata per la prima volta nel 1888 all’interno del libro Book of Verses. Questa poesia per Mandela è stata, la principale causa del suo continuare la vita in prigione nell’arco di 26, lunghi anni. La poesia viene anche presa come fonte d’ispirazione per il lungometraggio di Clint Eastwood, Invictus, con la partecipazione dell’attore Matt Damon, nel ruolo del capitano degli Springbok, anno 1990-1995, François Pienaar, e di Morgan Freeman. Divenuto libero cittadino e Presidente dell’ANC (luglio 1991 - dicembre 1999) Mandela concorse contro De Klerk per la nuova carica di presidente del Sudafrica e vinse, diventando il primo capo di stato di colore. De Klerk fu nominato vice presidente. Come presidente, (maggio 1994 - giugno 1999), Mandela presiedette la transizione dal vecchio regime basato sull’apartheid alla democrazia, guadagnandosi il rispetto mondiale per il suo sostegno alla riconciliazione nazionale e internazionale. Tale transizione fu portata avanti tramite l’istituzione, da parte dello stesso Mandela, di un tribunale speciale, la cosiddetta Commissione per la Verità e la Riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission, TRC). Un ruolo particolare Mandela svolse nell’ispirare e consigliare i rappresentanti dello Sinn Féin irlandese, impegnati nelle trattative di pace con il governo britannico. Alcuni esponenti radicali furono delusi dalle mancate conquiste sociali durante il periodo del suo governo, nonché dall’incapacità del governo di dare risposte efficaci al dilagare dell’HIV/AIDS nel Paese. Mandela stesso ammise, dopo il suo congedo, che forse aveva commesso qualche errore nel calcolare il possibile pericolo derivante dal diffondersi dell’AIDS. Anche la decisione di impegnare le truppe sudafricane per opporsi al golpe del 1998 in Lesotho fu una scelta controversa. Il 18 luglio 1998, giorno del suo ottantesimo compleanno, si sposò (per la terza volta) con Graca Machel. Dopo aver abbandonato la carica di presidente nel 1999, Mandela ha proseguito il suo impegno e la sua azione di sostegno alle organizzazioni per i diritti sociali, civili e umani. Ha ricevuto numerose onorificenze, incluso l’Order of St. John dalla Regina Elisabetta II e la Presidential Medal of Freedom da George W. Bush. Mandela è una delle due persone di origini non indiane (l’altra è Madre Teresa) ad aver ottenuto il Bharat Ratna, il più alto riconoscimento civile indiano (nel 1990). A testimonianza della sua fama va ricordata la visita del 1998 in Canada, durante la quale allo Skydome di Toronto parlò in una conferenza a 45.000 studenti che lo salutarono con intensi applausi. Nel 2001 ha ricevuto l’Ordine del Canada, primo straniero a ricevere la cittadinanza onoraria canadese. Nel giugno 2004, all’età di ottantacinque anni, Mandela ha annunciato di volersi ritirare dalla vita pubblica e di voler passare il maggior tempo possibile con la sua famiglia, finché le condizioni di salute glielo avessero concesso.
Continua a leggere: http://it.wikipedia.org/wiki/Nelson_Mandela
Leggo da Wikipedia:
Nelson Rolihlahla Mandela è stato un politico sudafricano, primo presidente a essere eletto dopo la fine dell’apartheid nel suo Paese e premio Nobel per la pace nel 1993 insieme al suo predecessore Frederik Willem de Klerk. Fu a lungo uno dei leader del movimento anti-apartheid ed ebbe un ruolo determinante nella caduta di tale regime, pur passando in carcere gran parte degli anni dell’attivismo anti-segregazionista. Protagonista insieme al presidente Frederik Willem de Klerk dell’abolizione dell’apartheid all’inizio degli anni Novanta, venne eletto presidente nel 1994, nelle prime elezioni multirazziali del Sudafrica, rimanendo in carica fino al 1999. Il suo partito, l’African National Congress, è rimasto da allora ininterrottamente al governo del paese. Mandela è il cognome assunto dal nonno. Il nome “Rolihlahla” (letteralmente “colui che provoca guai”) gli fu attribuito alla nascita; “Nelson” gli fu invece assegnato alle scuole elementari. Il nomignolo “Madiba” è il suo nome all’interno del clan di appartenenza, dell’etnia Xhosa. Nelson Mandela mosse i primissimi passi verso la conquista della libertà degli uomini nel 1941, all’età di ventidue anni, quando insieme al cugino Justice fu messo di fronte all’obbligo di doversi sposare con una ragazza scelta dal capo Thembu Dalindyebo. Questa imposizione di matrimonio combinato era una condizione che né Mandela né il cugino volevano tollerare. La scelta era molto delicata: o si sposava e andava contro il suo massimo principio, cioè la libertà, oppure non si sposava mancando così di rispetto alla sua tribù e alla famiglia. Così decise di scappare insieme al cugino, in direzione della città di Johannesburg. Da giovane studente di legge, Mandela fu coinvolto nell’opposizione al minoritario regime sudafricano, che negava i diritti politici, sociali, civili alla maggioranza nera sudafricana. Unitosi all’African National Congress (ANC) nel 1942, due anni dopo fondò l’associazione giovanile “Youth League”, insieme a Walter Sisulu, Oliver Tambo e altri. Dopo la vittoria elettorale del 1948 da parte del Partito Nazionale, autore di una politica pro-apartheid di segregazione razziale, Mandela si distinse nella campagna di resistenza del 1952 organizzata dall’ANC, ed ebbe un ruolo importante nell’assemblea popolare del 1955, la cui adozione della “Carta della Libertà” stabilì il fondamentale programma della causa anti-apartheid. Durante questo periodo Mandela e il suo compagno avvocato Oliver Tambo fondarono l’ufficio legale “Mandela e Tambo” fornendo assistenza gratuita o a basso costo a molti neri che sarebbero rimasti altrimenti senza rappresentanza legale. Inizialmente coinvolto nella battaglia di massa, fu arrestato insieme ad altre 150 persone il 5 dicembre 1956, e accusato di tradimento. Seguì un aggressivo processo, durato dal 1956 al 1961, al termine del quale tutti gli imputati furono assolti. Mandela e i suoi colleghi appoggiarono la lotta armata dopo l’uccisione di manifestanti disarmati a Sharpeville, nel marzo del 1960, e la successiva interdizione dell’ANC e di altri gruppi anti-apartheid. Nel 1958 aveva sposato in seconde nozze Winnie Madikizela, da cui poi si separò nel 1992. Nel 1961 divenne il comandante dell’ala armata “Umkhonto we Sizwe” dell’ANC (“Lancia della nazione”, o MK), della quale fu co-fondatore. Coordinò la campagna di sabotaggio contro l’esercito e gli obiettivi del governo, ed elaborò piani per una possibile guerriglia per porre fine all’apartheid. Raccolse anche fondi dall’estero per il MK, e dispose addestramenti para-militari, visitando vari governi africani. Nell’agosto 1962 fu arrestato dalla polizia sudafricana, in seguito a informazioni fornite dalla CIA, notizie che però lo stesso Mandela nella sua biografia ritiene non attendibili, e fu imprigionato per 5 anni con l’accusa di viaggi illegali all’estero e incitamento allo sciopero. Durante la sua prigionia, la polizia arrestò importanti capi dell’ANC, l’11 luglio 1963 presso la Liliesleaf Farm, di Rivonia. Mandela fu considerato fra i responsabili, e insieme ad altri fu accusato di sabotaggio e altri crimini equivalenti al tradimento (ma più facili per il governo da dimostrare). Joel Joffe, Arthur Chaskalson e George Bizos fecero parte della squadra di difesa che rappresentò gli accusati. Tutti, a eccezione di Rusty Bernstein, furono ritenuti colpevoli e condannati all’ergastolo, il 12 giugno 1964. L’imputazione includeva il coinvolgimento nell’organizzazione di azione armata, in particolare di sabotaggio (del cui reato Mandela si dichiarò colpevole) e la cospirazione per aver cercato di aiutare gli altri Paesi a invadere il Sudafrica (reato del quale Mandela si dichiarò invece non colpevole). Per tutti i successivi 26 anni, Mandela fu sempre maggiormente coinvolto nell’opposizione all’apartheid, e lo slogan “Nelson Mandela Libero” divenne l’urlo di tutte le campagne anti-apartheid del Mondo. Rifiutando un’offerta di libertà condizionata in cambio di una rinuncia alla lotta armata (febbraio 1985), Mandela rimase in prigione fino al febbraio del 1990. Le crescenti proteste dell’ANC e le pressioni della comunità internazionale portarono al suo rilascio l’11 febbraio 1990, su ordine del Presidente sudafricano F.W. de Klerk, e alla fine dell’illegalità per l’ANC. Mandela e de Klerk ottennero il Premio Nobel per la pace nel 1993. Mandela era già stato in precedenza premiato con il Premio Lenin per la pace nel 1962 e il Premio Sakharov per la libertà di pensiero nel 1988. Durante la sua detenzione, durata appunto 26-27 anni, Mandela lesse molti testi, poemi, poesie, liriche, libri in lingua afrikaner (olandese) e inglese, lingua che nel corso della detenzione imparò a perfezione conoscendo grammatica e parlato del gergo comune. In particolare come spiegò il presidente dopo l’elezione come capo-guida della Repubblica del Sud Africa, una poesia in inglese del poeta Britannico William Ernest Henley, del 1875, dal nome Invictus, dal latino “invitto”, o “invincibile” della raccolta Vita e Morte (Echi), pubblicata per la prima volta nel 1888 all’interno del libro Book of Verses. Questa poesia per Mandela è stata, la principale causa del suo continuare la vita in prigione nell’arco di 26, lunghi anni. La poesia viene anche presa come fonte d’ispirazione per il lungometraggio di Clint Eastwood, Invictus, con la partecipazione dell’attore Matt Damon, nel ruolo del capitano degli Springbok, anno 1990-1995, François Pienaar, e di Morgan Freeman. Divenuto libero cittadino e Presidente dell’ANC (luglio 1991 - dicembre 1999) Mandela concorse contro De Klerk per la nuova carica di presidente del Sudafrica e vinse, diventando il primo capo di stato di colore. De Klerk fu nominato vice presidente. Come presidente, (maggio 1994 - giugno 1999), Mandela presiedette la transizione dal vecchio regime basato sull’apartheid alla democrazia, guadagnandosi il rispetto mondiale per il suo sostegno alla riconciliazione nazionale e internazionale. Tale transizione fu portata avanti tramite l’istituzione, da parte dello stesso Mandela, di un tribunale speciale, la cosiddetta Commissione per la Verità e la Riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission, TRC). Un ruolo particolare Mandela svolse nell’ispirare e consigliare i rappresentanti dello Sinn Féin irlandese, impegnati nelle trattative di pace con il governo britannico. Alcuni esponenti radicali furono delusi dalle mancate conquiste sociali durante il periodo del suo governo, nonché dall’incapacità del governo di dare risposte efficaci al dilagare dell’HIV/AIDS nel Paese. Mandela stesso ammise, dopo il suo congedo, che forse aveva commesso qualche errore nel calcolare il possibile pericolo derivante dal diffondersi dell’AIDS. Anche la decisione di impegnare le truppe sudafricane per opporsi al golpe del 1998 in Lesotho fu una scelta controversa. Il 18 luglio 1998, giorno del suo ottantesimo compleanno, si sposò (per la terza volta) con Graca Machel. Dopo aver abbandonato la carica di presidente nel 1999, Mandela ha proseguito il suo impegno e la sua azione di sostegno alle organizzazioni per i diritti sociali, civili e umani. Ha ricevuto numerose onorificenze, incluso l’Order of St. John dalla Regina Elisabetta II e la Presidential Medal of Freedom da George W. Bush. Mandela è una delle due persone di origini non indiane (l’altra è Madre Teresa) ad aver ottenuto il Bharat Ratna, il più alto riconoscimento civile indiano (nel 1990). A testimonianza della sua fama va ricordata la visita del 1998 in Canada, durante la quale allo Skydome di Toronto parlò in una conferenza a 45.000 studenti che lo salutarono con intensi applausi. Nel 2001 ha ricevuto l’Ordine del Canada, primo straniero a ricevere la cittadinanza onoraria canadese. Nel giugno 2004, all’età di ottantacinque anni, Mandela ha annunciato di volersi ritirare dalla vita pubblica e di voler passare il maggior tempo possibile con la sua famiglia, finché le condizioni di salute glielo avessero concesso.
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mercoledì 4 dicembre 2013
L’ora delle decisioni fatali
Ciao amici,
Allora dopo lunghe ed estenuanti attese e trattative pare che la maggioranza abbia deliberato per Capodanno: UMBRIA.
Visiteremo città d'arte come Assisi, Spoleto, Foligno, Arezzo, Gubbio; e faremo dei brevi trekking verso le Fonti del Clitumno e su e giù per le colline seguendo il Cammino Francescano.
Al momento, e correggetemi se sbagli, abbiamo l’adesione di: Lorenzo, Salvo, Enrico e Robertino. Più il sottoscritto. Non ho più avuto notizie dagli altri, salvo qualche mezza risposta da Giovanna, Elena di Vicenza, Elena di Siena. Dato che ormai il tempo stringe, e dunque occorre “stay in bell” (ovvero “stare in campana”) come dice giustamente Alessandro da Roma, direi che è giunto il momento di prenotare i posti. Sennò addio sogni di gloria. Indi per cui, direi che gli indecisi hanno tempo fino a fine settimana. Sabato telefono e prenoto. Chi c’è c’è.
Per i decisi invece, occorre capire le date:
Prima soluzione: si parte il 28 dicembre (sabato) e si torna il 1-2 gennaio.
Seconda soluzione: si parte il 30 dicembre (lunedì) e si torna il 3-4 gennaio.
E poi il mezzo di trasporto per recarci in loco: se scendiamo in treno spendiamo circa una trentina di euro ad andare e altrettanti a tornare (evitando le Frecce Rosse, naturalmente). Per la precisione: Milano Centrale - Arezzo (€.19); Arezzo - Perugia (€. 6.95).
Se invece optiamo per l’automobile si spenderebbero c.a. un’ottantina di euro. In questo caso occorre ovviamente riempire l’auto.
Resto in attesa.
Lu.
Allora dopo lunghe ed estenuanti attese e trattative pare che la maggioranza abbia deliberato per Capodanno: UMBRIA.
Visiteremo città d'arte come Assisi, Spoleto, Foligno, Arezzo, Gubbio; e faremo dei brevi trekking verso le Fonti del Clitumno e su e giù per le colline seguendo il Cammino Francescano.
Al momento, e correggetemi se sbagli, abbiamo l’adesione di: Lorenzo, Salvo, Enrico e Robertino. Più il sottoscritto. Non ho più avuto notizie dagli altri, salvo qualche mezza risposta da Giovanna, Elena di Vicenza, Elena di Siena. Dato che ormai il tempo stringe, e dunque occorre “stay in bell” (ovvero “stare in campana”) come dice giustamente Alessandro da Roma, direi che è giunto il momento di prenotare i posti. Sennò addio sogni di gloria. Indi per cui, direi che gli indecisi hanno tempo fino a fine settimana. Sabato telefono e prenoto. Chi c’è c’è.
Per i decisi invece, occorre capire le date:
Prima soluzione: si parte il 28 dicembre (sabato) e si torna il 1-2 gennaio.
Seconda soluzione: si parte il 30 dicembre (lunedì) e si torna il 3-4 gennaio.
E poi il mezzo di trasporto per recarci in loco: se scendiamo in treno spendiamo circa una trentina di euro ad andare e altrettanti a tornare (evitando le Frecce Rosse, naturalmente). Per la precisione: Milano Centrale - Arezzo (€.19); Arezzo - Perugia (€. 6.95).
Se invece optiamo per l’automobile si spenderebbero c.a. un’ottantina di euro. In questo caso occorre ovviamente riempire l’auto.
Resto in attesa.
Lu.
martedì 3 dicembre 2013
‘Cappuccetto Rosso’: duemila anni e non sentirli
È davvero singolare l’esperienza che capita a colui che ha a che fare con i bambini dai tre anni in su. Tipo i miei nipoti. E dico dai tre anni in su perché è da questa età che si comincia ad avere un rapporto intellettualmente stimolante. Prima è tutto affetto e tenerezza. Ogni giorno che passa ti rendi conto dei progressi enormi che compie la piccola mente umana, e ne resti meravigliato. Da qualche mese, per esempio, mi sono accorto che mio nipote, quello piccolo, ha cominciato a capire l’ironia ed è capace di astrarre i concetti. In precedenza, quando gli facevo qualche celia - tipo nascondergli un cioccolatino - rimaneva sbalordito, senza risposte: un mistero insolubile e insondabile. E forse un potenziale rischio. In fin dei conti per i bimbi noi siamo pur sempre dei giganti enormi. Ora invece il gioco si è evoluto ed è addirittura possibile ricreare e recitare alcune delle loro favole preferite, tipo “i tre porcellini”. È uno spettacolo vedere il piccolo che interpreta il lupo che soffia e sbuffa per tirare giù la casa di paglia del porcellino fannullone. Io e l’altra nipote facciamo la parte dei porcellini spaventati, e talmente entriamo nella parte, che il “lupo” - mosso a pietà - è costretto a interrompere la recita per dire: «… ma è per finta…». Ovvero, non dovete aver paura, è solo una finzione. Il che la dice lunga sulla mente di un bimbo di quell’età: per lui cioè, esiste davvero un lupo cattivo che si aggira per il boschi tenebrosi, a caccia di nonnine e pargoletti da divorare. E a nulla valgono tutti gli sforzi dei grandi per far capire che il lupo è un animale come tutti gli altri, poco più di un cane, capace anche di affetto. Un giorno infatti, per fugare questa paura atavica, feci vedere ai miei nipoti un video di un branco di lupi alle prese con una cucciolata: il massimo della tenerezza che si potesse recuperare in rete. Ebbene, davanti a quelle immagini, l’apprensione e il timore che era dipinto sui loro volti si mutò in stupore colmo di gioia inaspettata. Terminato il video, però, ecco ricomparire l’ombra del lupo cattivo di là dalla porta, nascosto nella penombra. Perché i bimbi hanno paura dunque, anche quando viene loro spiegato che non c’è nulla di cui aver timore? In realtà qui si tratta di un paura ancestrale, legata ad antichi retaggi di un’epoca in cui c’era davvero la consapevolezza che il lupo - simbolo di una natura matrigna - era un pericolo mortale. Ed era la paura, con tutto ciò che essa implicava, a rendere più accorti e dunque meno propensi a finire tra le fauci delle prede. E non c’è escamotage psicologico moderno che possa cancellare questo incubo genetico, affondato nei nostri abissi inconsci. Tra l’altro è sintomatico il fatto che le fiabe più antiche siano quelle che più si prestano a fare breccia nella fantasia dei bimbi: quando queste furono scritte, infatti, i loro autori erano completamente immersi in quella realtà fatta di luci ed ombre, ed è per questo che sono così vive, spaventose. In altre parole gli autori credevano a ciò che scrivevano, perché a quell’epoca inoltrarsi in un bosco era davvero pericoloso: molto più di oggi. E non solo per la presenza di fauna feroce, ma anche perché in quelle lande desolate c’era il rischio di incontrare briganti e tagliagole. Ed infatti molti studiosi ritengono che il famoso “lupo di Gubbio” altro non era che un bandito il cui “territorio di caccia” si estendeva lungo la valle del Chiscio, a sud di Gubbio.
Ora, a dimostrazione che queste favole affondano le loro radici nel nostro passato - anche molto remoto - giunge uno studio pubblicata sulla rivista scientifica Plos One. Un team di ricercatori della Durham University, avvalendosi delle tecniche di analisi utilizzate dai biologi evoluzionisti per ricostruire l’albero evolutivo delle specie - fino a individuare gli antenati comuni - ha scoperto che la radice di ‘Cappuccetto Rosso’ risiederebbe in un antico racconto popolare che giunge da molto lontano, ovvero da una storia europea vecchia di almeno 2.000 anni. Diffusa dapprima in Europa; esportata successivamente in Medio Oriente; e giunta fin nella lontana Cina. In questa versione originale il lupo si traveste da tata-capra e divora i bambini. ‘Cappuccetto Rosso’, così come lo conosciamo noi, è opera dei fratelli Grimm, ovvero di un’epoca (1800) a noi molto più vicina. Ma se non ci fosse stata una cultura orale antichissima, tramandata di generazione in generazione, e nel corso dei secoli, mai gli autori tedeschi avrebbero potuto scrivere questa fiaba immortale.
Nella loro ricerca gli studiosi si sono imbattuti nella bellezza di 72 diverse variabili della versione “originale”. A seconda del luogo in cui si è diffusa e tramandata, la favola ha cambiato tipo di protagonisti, caratteristiche del personaggio negativo, stratagemmi utilizzati per conseguire lo scopo “criminoso”. Nella versione di Charles Perrault del 1697, ad esempio - epoca in cui si bruciavano ancora le streghe e si pensava che il boschi fossero abitati da diavoli e spiriti malvagi - la povera Cappuccetto Rosso e la vecchia nonnina, fanno una brutta fine. E non c’è cacciatore che corra loro in aiuto.
Qualche tempo fa, il mio amico Davide ed io parlavamo dei nostri nonni. Tutti defunti, ahimè. I miei abitavano in Puglia, i suoi sul confine tra la provincia di Milano e Pavia. Ebbene, tra un discorso e l’altro abbiamo scoperto che le nostre nonne erano solite praticare - quando c’era qualcuno ammalato in famiglia - una sorta di rituale magico-religioso per allontanare il malocchio (o comunque l’entità maligna causa del malanno). E fin qui nulla di particolare, visto che nelle comunità contadine di ogni epoca e latitudine era tradizione rivolgersi al mistero e all’occulto per ottenere benefici. Quello che mi ha stupito invece, è che le modalità, i gesti, le formule adoperate dalle due donne erano esattamente le stesse. Ovvero, pur avendo vissuto tutta la loro vita in luoghi lontanissimi - sia geograficamente, sia culturalmente - entrambe le donne avevano appreso per cultura orale le stesse nozioni, le medesime parole sacre, ripetute seguendo identiche procedure. Tutto ciò non poteva che provenire da un’epoca remotissima, dimenticata eppure presente ancora oggi tra di noi. È incredibile il modo in cui ci giungono queste storie, eppure, se ci pensiamo, il nostro modo di vivere e di essere, non è altro che diretta espressione e somma di tutto ciò che c’è stato prima di noi. Siamo, in altre parole, il frutto di coloro che ci hanno preceduto nel corso della storia dell’Umanità.
Ecco perché ‘Cappuccetto Rosso’ ci racconta ancora oggi una parte del nostro passato.
Fonte: http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0078871
Qualche tempo fa, il mio amico Davide ed io parlavamo dei nostri nonni. Tutti defunti, ahimè. I miei abitavano in Puglia, i suoi sul confine tra la provincia di Milano e Pavia. Ebbene, tra un discorso e l’altro abbiamo scoperto che le nostre nonne erano solite praticare - quando c’era qualcuno ammalato in famiglia - una sorta di rituale magico-religioso per allontanare il malocchio (o comunque l’entità maligna causa del malanno). E fin qui nulla di particolare, visto che nelle comunità contadine di ogni epoca e latitudine era tradizione rivolgersi al mistero e all’occulto per ottenere benefici. Quello che mi ha stupito invece, è che le modalità, i gesti, le formule adoperate dalle due donne erano esattamente le stesse. Ovvero, pur avendo vissuto tutta la loro vita in luoghi lontanissimi - sia geograficamente, sia culturalmente - entrambe le donne avevano appreso per cultura orale le stesse nozioni, le medesime parole sacre, ripetute seguendo identiche procedure. Tutto ciò non poteva che provenire da un’epoca remotissima, dimenticata eppure presente ancora oggi tra di noi. È incredibile il modo in cui ci giungono queste storie, eppure, se ci pensiamo, il nostro modo di vivere e di essere, non è altro che diretta espressione e somma di tutto ciò che c’è stato prima di noi. Siamo, in altre parole, il frutto di coloro che ci hanno preceduto nel corso della storia dell’Umanità.
Ecco perché ‘Cappuccetto Rosso’ ci racconta ancora oggi una parte del nostro passato.
Fonte: http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0078871
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