Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

lunedì 29 ottobre 2012

L'ora legale..., ma ci conviene?

Durante l’ultimo fine settimana è tornata l’ora solare. E’ da quando ho l’età della ragione che questo avvenimento semestrale mi causa profondi sconvolgimenti, associati spesso a feroci extrasistole maligne. “Oddio, bisogna cambiare l’ora…? Le lancette avanti…, le lancette indietro…? Ma quindi si dorme un’ora di più o di meno…, bah e chi può dirlo? Si, d’accordo…, ma la sera farà buio prima o dopo…? E al mattino? Mi sveglierò che c’è già il sole, o saremo precipitati in un crepuscolo post-atomico?”. Ecco, queste domande mi hanno sempre angosciato tremendamente, ed ancora oggi non sono del tutto convinto di aver capito esattamente come funziona tutta la faccenda. Si dice da sempre: “Tutto ciò è necessario perché si risparmia sulla bolletta energetica”.
Giustissimo, in epoca di crisi e di profonda recessione economica, è più che sacrosanto ridurre le spese. Ebbene, sapete quanto abbiamo risparmiato in questo semestre? Ce lo dice Terna: “Durante il periodo di ora legale l’Italia ha risparmiato circa 102 milioni di euro”. 102 milioni di euro? Tutto qui? Sfasamento del sonno, alterazione dei ritmi biologici, preoccupazioni, difficoltà digestive, aerofagia, aggiornamento dei sistemi informatici, sveglie, orologi, termostati…, e tutto questo per questa cifra miserrima? Ma stiamo scherzando? Tanto per dare qualche cifra, pare che le elezioni anticipate in Lombardia costeranno qualcosa come 50 milioni di euro…! Ma poi avete mai provato a fare un giro di notte per il centro di una qualsiasi metropoli? C’è più luce di un mezzogiorno d’agosto. Alcuni indossano perfino gli occhiali da sole. Banche, negozi, uffici, supermercati, non c’è finestra o vetrata che non diffonda una luce violentissima. Che ti viene da chiederti: “Ma a cosa cavolo serve tenere accesi tutti quei neon, quelle lampadine, quei faretti? Ci sarà qualcuno che lavora dentro quei locali?”. La risposta ovviamente è no. L’unica luce perennemente accesa di notte - a buona ragione - era quella di Palazzo Venezia a Roma, durante gli anni della guerra. Pare che dentro ci fosse un omino buffo che non dormiva mai - al massimo riposava - e che, mentre gli italiani ronfavano nei propri letti, vigilava sul sacro suolo patrio. Ecco, a parte questo esempio preclaro della storia, se partissimo da qui con il risparmio energetico? Cioè con lo spegnere le nostre città di notte. Oltretutto potremmo correre seriamente il rischio di accorgerci che lassù, sopra le nostre teste e sopra le nostre vite, esiste una volta blu notte, trapunta di gemme brillanti…! Che poi non riesco neanche a capire il senso di “dormire un’ora in più” alla domenica. Fosse che l’ora solare scattasse tra domenica e lunedì, e che quindi al primo giorno lavorativo effettivamente avessimo un’ora in più da dormircela. Ma la domenica, giornata già consacrata al riposo? A che mi serve la possibilità di restare a letto un’ora in più quando già mi sveglio alle undici. E solo perché c’è da portare fuori il cane a pisciare. L’obiezione è: “E bravo, così sai che macello si creerebbe con il lavoro, considerato che almeno la metà degli italiani ancora non hanno capito se le lancette vanno spostate avanti o indietro…”. Giusto. Ed in effetti, tempo fa, quando lavoravo in fiera (le manifestazioni si accavallavano sempre sulla domenica), si verificavano sempre problemi di questo genere. Nonostante negli uffici fossero affissi manifesti giganti che avvisavano dell’imminenza del cambio dell’ora. Niente da fare, c’era sempre una nutrita pattuglia di refrattari ai cambiamenti…! C’era qualcosa di assolutamente scientifico nei loro errori. Molti, a dire il vero, ne approfittavano biecamente, questo pure è da dire. Ma nella maggior parte dei casi gli sbagli erano del tutto involontari. Ad ogni modo, l’episodio che più ha colpito la mia immaginazione negli anni fu quello che vide protagonista mio padre. Siamo verso la fine degli anni ’70, stazione ferroviaria di Sesto san Giovanni. Presso l’ufficio “piccola-grande velocità” tra gli altri colleghi c’è anche tale Pietro, detto Pietruzzo in antitesi con la sua mole esagerata. Questi era un uomo per bene, gran lavoratore, buono come il pane. Aveva un unico difetto però: era di una voracità agghiacciante. Qualsiasi alimento tra le sue fauci affamate scompariva sempre in pochissimi secondi: non masticava, beveva…! E così con gli anni il povero Pietruzzo cominciò a soffrire di pressione alta, colesterolo alle stelle, trigliceridi fuori controllo. Per farla breve, poco più che quarantenne un ictus devastante lo fulminò senza che neanche se ne potesse accorgere. Tra i colleghi ci fu un cordoglio unanime e profondo, tanto e tale era l’affetto e la stima che nutrivano nei suoi confronti. Furono fissati i funerali. Quella domenica mattina mio padre si vestì di nero totale, e si avviò verso la casa di Pietruzzo, dove era stata allestita la camera ardente. Salì le scale dello stabile ed entrò nell’appartamento: la porta era aperta. Non c’era praticamente nessuno, solo un paio di persone che non conosceva erano sedute e chiacchieravano fitto fitto tra di loro. Cominciò ad insospettirsi e così decise di dare un’occhiata in giro alla ricerca della cassa. Girò tutte le stanze, una per una. Niente di niente. Tornò verso l’ingresso: i due tizi lo guardavano perplessi. Egli li fissava, a tratti abbozzava un’espressione contristata, seguita da un accenno di sorriso che voleva significare: “E già…, sono sempre i migliori che se ne vanno…”. Nessuno parlava però. Mio padre era in preda ad una curiosità lancinante: “Dove sono tutti, dov’è il morto?”. Ad un certo punto ruppe il silenzio: «Scendo un momento solo…, ritorno subito». I due tizi seduti si guardarono in faccia ancora più perplessi e non risposero una parola. A questo punto, scendendo le scale, era nel marasma più completo. Una volta in strada cominciò a dubitare del fatto che fosse proprio quella l’abitazione di Pietruzzo. Poi però pensò a quante volte era andato a trovarlo, quante volte aveva svoltato quell’angolo ed era salito su per quelle scale. No, la casa era quella, non c’erano dubbi. C’era da impazzire. A quel punto pensò anche di aver sbagliato giorno. Fermò per strada un vecchietto e gli chiese a bruciapelo: «Scusi, che giorno è oggi?». E questi, guardandolo come si guarda un malato di mente furioso, gli rispose: «Non me lo ricordo…, abbia pietà…». Si accese una sigaretta e pensò di attendere in strada: prima o poi si sarebbe fatto vivo qualcuno. Trascorse oltre mezzora. A questo punto era davvero un mistero. Ritornò su in casa e questa volta non diede neanche uno sguardo a quei due farabutti. Cominciò una ricerca forsennata in tutte le stanza, ispezionò ogni anfratto, ogni angolo dell’appartamento. Per non lasciare niente d’intentato decise di cercare la cassa anche negli armadi e nei cassetti. Niente, neanche il più piccolo indizio. E così, mentre prono guardava sotto il letto, ultimo disperato tentativo, uno dei due tizi gli si avvicinò e chiese: «Senta giovanotto, ha perso qualcosa?». Al che mio padre gettò la maschera e si qualificò come collega del morto. «Guardi che lei è in leggerissimo ritardo sa… - rispose l’uomo beffardo - . L’hanno portato via più di un’ora fa». Mio padre cadde dalle nuvole: «Ma scusi, il corteo non doveva muoversi alle dieci?». «E lo ha fatto…, puntualissimo». Mio padre guardò l’orologio: segnava le dieci e dodici minuti. Avvicinò l’orecchio al quadrante: il ticchettio c’era. «Senta, abbia pazienza, che ora fa il suo orologio?». «Le undici e un quarto. A quest’ora saranno già al cimitero per la tumulazione». Ringraziò e ridiscese. Non aveva l’automobile e il cimitero era molto distante. Tornando verso casa provava strane sensazioni: era come se si trovasse su una nave che beccheggiava al vento di libeccio. Si tolse quegli abiti scuri e si mise comodo. La moglie cominciò a fargli alcune domande sulla cerimonia. Egli non rispondeva, lo sguardo assente. Poi tutto d’un tratto lei disse: «Ah, per fortuna che ha chiamato mia sorella e mi ha avvisato dell’ora legale…! Dobbiamo rimettere gli orologi». Al che egli aprì la bocca, occhi pallati e sguardo di stupore definitivo. La moglie si accorse di quell’espressione: «Che hai? ». «Niente, niente - rispose lui - la prossima volta cerchiamo di stare più attenti». Ecco, per tutte queste ragioni ritengo che l’ora legale andrebbe definitivamente cancellata.

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