E così, alla fine di un lungo iter processuale, la giustizia sportiva ha emesso la sua sentenza: l'Unione ciclistica internazionale (UCI) ha deciso di uniformarsi alle decisioni dell'Usada - l'agenzia antidoping statunitense - e dunque Lance Armstrong, il più grande corridore dell'ultimo ventennio, e sicuramente uno dei più forti della storia, perderà non solo i sette successi al Tour de France, ma tutti i titoli conquistati in carriera dal 1998. Ed è probabile che gli venga chiesta anche la restituzione di tutti i premi, economici e non. Una vera damnatio memoriae. A dire il vero l'ombra del doping era stata avanzata in diverse circostanze, e per gran parte della sua lunga carriera, ma mai si era raggiunta la certezza che quei risultati sportivi fossero effetto di un tale frutto avvelenato. Ora tutto è cancellato, tutto è perduto, l'onore sopra ogni cosa. Questa vicenda mi fa pensare al mio avvicinamento al ciclismo. In fondo ci si avvicina ad uno sport soprattutto perché ci facciamo travolgere dal mito del campione, dell'eroe osannato, faro dell'Umanità. Siamo alla fine degli anni 90' e il mio collega - e amico - Marco, che in gioventù era stato un discreto sprinter, aveva coinvolto me ed altri in questo sport. Alcuni acquistarono una bicicletta nuova, altri riattarono quella di un qualche parente, e via sui pedali.
Le nostre erano uscite per lo più domenicali su per i colle brianzoli. Uscite da pensionati verrebbe da dire. Verrebbe da dire per chi non conosce i pensionati che vanno a correre sulle due ruote. Ci volle poco per capire che quella categoria di veterani andava trattata con molto, ma molto rispetto. Un giorno partii spocchioso e baldanzoso, confidando nella freschezza della mia gioventù, ma già al quindicesimo chilometro stramaledivo me, la bicicletta e tutti quei dannati vegliardi che filavano via sul filo dei quaranta all'ora. Giunsi a casa strisciando su gomiti e ginocchia, sfiancato. Per settimane lasciai la bicicletta appesa al chiodo, meditando di darmi al curling (nel ruolo del portatore di scopetta mi ci vedevo benissimo). Poi col tempo ripresi a correre. Quando a maggio giungeva il Giro d'Italia dalle nostre parti, si decideva di andare a seguire una tappa. Di solito la più impegnativa. E così in quel lontano 1999 Marco ed io optammo per la tappa del Mortirolo. Il campionissimo del momento era Marco Pantani. Qualche mese prima avevo avuto il privilegio di conoscerlo personalmente, presso la fiera di Milano, in occasione dell'Eicma, il salone della bicicletta. Egli veniva dai trionfi dell'anno prima, dalle vittorie al Giro e al Tour. Era all'apice della carriera, osannato e venerato come un semidio. La società per la quale lavoravo si occupava anche di sicurezza e così quel giorno venne organizzato un servizio di scorta per lui. Avrebbe visitato alcuni stand della fiera, tenuto una conferenza, stretto mani, firmato autografi, ma in quella calca di visitatori-tifosi era necessario un minimo di servizio d'ordine. L'entusiasmo che ci accompagnò per tutta la sua permanenza in fiera fu incredibile, la confusione totale. Durammo fatica a contenere tutta quella massa di persone che spingevano per toccare Pantani, per stringergli la mano, per farsi fotografare insieme a lui. Egli si aggirava spaesato, lo sguardo come assente, distaccato. Non c'erano lampi di gioia nei suoi occhi, nè di afflizione o tristezza. Sembrava che la sua mente fosse altrove, lontana. Le ultime parole che pronunciò dal palco della Gazzetta dello Sport furono quelle di risposta alla domanda del giornalista che gli chiedeva quale vittoria di tappa avrebbe desiderato per il prossimo Giro. Ed egli rispose: "Il Mortirolo". Un boato di tifosi accompagnò la sua uscita dal padiglione. E così in quel maggio del '99 Marco ed io salimmo in mattinata verso la vetta di quel passo, transitando da Tirano e poi su da Mazzo di Valtellina. La corsa sarebbe passata nel primo pomeriggio e noi lì avremmo atteso i ciclisti. Fu una delle fatiche più immani della mia vita. Le pendenze erano talmente impegnative e costanti che lasciavano totalmente senza fiato. Giunti a metà salita, vale a dire intorno al sesto chilometro ci fermammo. Era il punto più infame di quella lunga e strettissima striscia d'asfalto che puntava verso il cielo, e qui i ciclisti avrebbero dovuto dare il meglio di loro stessi per prevalere sugli avversari. Ci accampammo a bordo strada e cominciammo a pregustarci lo spettacolo che sicuramente Pantani avrebbe offerto senza risparmiarsi. Intorno a mezzogiorno ci sintonizzammo su Radio-Corsa e solo allora scoprimmo che Pantani era stato fermato alla partenza per ematocrito fuori limite massimo. Fu una delusione che lasciò sgomenti, affranti e senza parole. E così perso il campione ci restarono Gotti, Heras e alcuni altri comprimari e portaborracce. I corridori furono preceduti dalle moto apripista e in brevissimo tempo furono da noi. I primi salivano come se non facessero fatica, solo una smorfia appena accennata di sofferenza e una sudorazione preoccupante facevano intuire l’enorme sforzo a cui si sottoponevano. Gli ultimi invece, opportunamente lontani dalle telecamere, non solo non rifiutavano le spinte dei tifosi, ma anzi le incoraggiavano. Il mio amico Marco, a rischio di un infarto, ne accompagnò una mezza dozzina spingendoli per cinquanta-sessanta metri. Per me invece c’era ancora la delusione, uno sconforto amarissimo che mi inchiodava sul mio pezzettino d’asfalto. Senza il mio idolo mi allontanai col tempo dal ciclismo. Sulla scia di Pantani – cui non fu mai riconosciuto peraltro l’uso di doping per via diretta, ma solo per deduzione – ci furono altri ciclisti travolti da scandali: Basso, Di Luca, Contador più recentemente e tanti altri. Non ci si riusciva ad affezionare ad un campione che subito veniva smascherato il suo imbroglio. Ed ora siamo qui a fare i conti con Armstrong. Parafrasando il Qoelet verrebbe da dire: “Tutto è vanità”. O meglio ancora nella traduzione di Erri De Luca: “Tutto è spreco”. Già, spreco inutile. Tanto affannarsi, tanta fatica, clamore, paginate di giornali, altari, incenso, ribalte mediatiche…, e tutto questo per arrivare dove? Per arrivare alle parole pronunciate da Pat McQuaid, presidente dell’Uci: "Lance Armstrong non ha posto nel ciclismo. Merita di essere dimenticato". Dimenticato dice McQuaid, cancellato dalla memoria: in fondo questo è proprio ciò che più temono i campioni (ma non solo loro, mi verrebbe da dire), ciò contro cui si battono con le loro gesta. Eternare nel tempo il loro nome, per essere sempre vivi. Tutto questo, prima ancora che indignare, fa sorgere una grande tristezza. Perché in fondo tutto ciò, non è che metafora dei nostri tempi, vale a dire la ricerca del successo ad ogni costo, anche facendo ricorso ai mezzi più spregiudicati e truffaldini: sembra di leggere in chiave attuale, tutti gli scandali che stanno travolgendo la nostra società. Mi piace concludere con l’articolo che Giorgio Bocca scrisse alla morte di Pantani, l’ultimo eroe tragico della mia gioventù: “Nella dolente cerimonia si aprono abissi di ipocrisia e una valanga di sragionamenti a pera su quel rapporto ambiguo, ma travolgente fra il campione e la folla. Un rapporto in verità molto semplice, che appartiene alla fisica più che ai venerandi sentimenti dell'amicizia e dell'amore, cioè il ricordo indelebile di quell'ometto che buttava sulla strada la bandana piratesca, si rizzava sui pedali e, come un passero leggero, infilava la muta dei concorrenti e spariva sulle curve dei colli alpini o pirenaici. Uno che volava come tutti vorrebbero” (La Repubblica, 17 febbraio 2004).
Grande Lance sempre nei nostri cuori... LIVESTRONG, Doping FREE!
RispondiElimina