Quel giorno maledetto, quando la sua Williams andò a sbattere contro il muretto della curva del Tamburello, nessuno di noi riuscì a credere neanche per un istante che la sua vita sarebbe finita quel giorno: egli era immune dalla morte nelle nostre menti di ragazzi…! E così, anche quando lo tirarono fuori dall’abitacolo, non ci sembrava vero che fosse grave, tutt’altro, ed anzi, ci aspettavamo che da un momento all’altro si alzasse sulle proprie gambe e, come aveva fatto mille volte, si togliesse il casco e se ne tornasse da solo verso i box. La cronaca poi ci raccontò il seguito. Purtroppo.
Ecco, ora a distanza di vent’anni, ancora di più rifulge il suo ricordo, e così come accade con i grandi che se ne sono andati tragicamente - e troppo presto - , ci si appresta alle grandi celebrazioni. Si inaugureranno statue ricordo, si dedicheranno a lui circuiti sportivi, magari anche qualche scuola adotterà il suo nome.
Ayrton aveva 34 anni quando se n’è andò, era ancora un ragazzo. Nel suo bellissimo pezzo pubblicato su Il Fatto Quotidiano di sabato, Massimo Fini scrive un elogio del campione brasiliano e una serie di considerazioni circa la sua “morte epica (non già tragica), una morte nella pienezza della salute, nello splendore della giovinezza. Una morte in bellezza”. E la mette in contrapposizione con quell’altro tipo di morte, “la morte biologica, quella in genere del vecchio, con un corpo che si sta disfacendo”. Quella che “ci fa orrore”. Ecco perché gli antichi - nella loro infinita saggezza - avevano elevato a massima di vita l’espressione “Carpe diem”, ovvero cogli l’attimo. Oggi invece, nella nostra infinita insulsaggine, abbiamo cancellato il concetto di fine, la morte non ci appartiene più antropologicamente. E così tutto scorre in un continuum temporale che ci porta dall’infanzia alla vecchiaia, quasi senza distinzione di colore, come se tutto dovesse essere sempre uguale ed identico a se stesso. Ed invece dovremmo ogni tanto fermarci a riflettere, dovremmo accendere una luce su parole come vecchiaia, morte, tempo. Solo in questo modo, forse, riusciremmo a dare la giusta prospettiva alla nostra vita e ad assegnare importanza alle cose importanti, tralasciando tutto il resto. Forse…!
Ferruccio Sansa (Il Fatto, 7/4), che leggo sempre volentieri perché ogni tanto scantona dai temi della legalità e della politica che sono propri del nostro giornale, avendo letto, a Londra, su una grande lavagna la frase «Prima di morire vorrei…», riflette sulla vecchiaia, la morte, il tempo.
Nella mitologia greca Cronos, il padre degli dei, mangia i suoi figli. Cosa vuol dire questa metafora? Che il Tempo ci divora. È il padrone ineluttabile delle nostre esistenze. («Vola il tempo, vola e va, ma forse più del tempo, che non ha età, siamo noi che ce ne andiamo»- De Andrè). Per rimuovere questo pensiero riempiamo la nostra vita di ogni sorta di cose, di azioni e di sentimenti (i quali, nella mia ottica, non sono che delle, non innocue, malattie psicosomatiche). Cerchiamo in tutti i modi di ‘ammazzare il tempo’. Purtroppo è il Tempo che ammazza noi.
«Caro agli Dei è chi muore giovane» scrive Menadro. Quando ero ragazzo pensavo che fosse solo una bella battuta d’autore. Credo invece che contenga una cruda verità. La morte di Ayrton Senna, trentenne -quando, dopo vari preavvertimenti, si infila il casco, come il cavaliere medioevale si cala la celata, sapendo che va a morire, ma il suo orgoglio di campione non gli concede scelta- non è tragica, è epica, è una morte nella pienezza della salute, nello splendore della giovinezza. È una morte in bellezza. La morte biologica, quella in genere del vecchio, con un corpo che si sta disfacendo, ci fa orrore.
Ma forse ad essere baciati in fronte dagli Dei sono solo coloro che non sono mai nati. Perché una volta che ci sei entrato, nella vita, non hai più scampo. Non puoi evitare il torturante confronto col Tempo. E finché ci sei te la devi giocare questa partita […].
Continua a leggere l’articolo di Massimo Fini: http://www.massimofini.it/articoli/l-inevitabile-condanna-della-nostra-vecchiaia
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