Scrive un amico di Roma, insegnante di scuola media: «I miei alunni nomadi, quelli che comunemente chiamiamo “zingari”, hanno dei nomi meravigliosi, non ho mai sentito niente di più bello: Suada, Neftalem, Artezian, Dhivael, Khellian. Altisonanti, musicali, suggestivi, poetici, avventurosi, romantici, luminosi come gemme d’Oriente. Nomi il cui suono fa pensare agli affascinanti avventurieri sulla Via della Seta, o alle fanciulle delle Mille e una notte».
“Come fu che una divinità nomade che aveva per santuario una tenda e viaggiava beduina per i deserti, finì rinchiusa dentro chiese, moschee, sinagoghe, dentro i recinti delle religioni? Dove smette il cammino, la sua santa deriva, cominciano le mura. Non è servita la dura lezione di due Templi distrutti a Gerusalemme. I monoteismi si sono dati all’edilizia e alla fortificazione. Il monoteismo di Abramo il vagabondo si praticava all’aria aperta, si spostava su sandali e si accovacciava di sera intorno a un fuoco.
Nell’ostilità verso gli zingari c’è anche il sospetto che essi conoscano le vie del cielo meglio dei cittadini. Nessuno zingaro è diventato astronomo, ma ognuno dei loro bambini chiama per nome le stelle”.
(Erri De Luca).
Prova
“Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)
Pagine
venerdì 31 gennaio 2014
Solidarietà
Francesco, detto Ciccio, era una persona fuori dal comune, e lui stesso era il primo a riconoscerlo. Di lui si narravano spesso storielle assai fantasiose e, alle volte, era egli stesso a raccontare le sue avventure stravaganti e surreali, senza peraltro nasconderne un certo qual compiacimento. Amava ad esempio presentarsi come grande affabulatore: «Mi devi credere: per andare dal tabaccaio all’angolo ci metto non meno di due ore, regolarmente! Chiunque mi vede per strada mi ferma e comincia a farmi domande, a chiedermi consigli, opinioni su qualunque argomento: “Uhe Ciccio, ho litigato con mia moglie: hai due minuti?” - “Uhe Ciccio, ho lo scarico del cesso intasato, che mi consigli?” - “Uhe Ciccio, mi hanno trovato la prostata infiammata: che devo fare?”. Io poi sono cortese, educato, rispondo a tutti, per carità, ma quando arriva il momento di dire basta lo faccio senza troppi giri di parole: “No guaglio’, e ‘mo basta ‘mo, me ne devo andare: tengo che fa…”. Ci restano male, lo so, ma non ci posso fare niente: devo pensare un po’ anche alla mia vita, o no?».
All’epoca in cui viveva ancora a casa del padre era appassionato di motori, soprattutto di motociclette. Dal momento che la prima gliel’avevano rubata sotto casa, aveva deciso che la soluzione migliore, per evitare un secondo furto, fosse portare la seconda direttamente in casa, su al terzo piano. La moto, una Kawasaki 750, rombava paurosamente su e giù per le scale del condominio ogni mattina e sera, lasciando spaventevoli miasmi per ore, oltre alle sgommate sui muri, ma i vicini non si lamentavano più di tanto: in fondo Ciccio - così lo chiamavano tutti ormai da anni - era simpatico e divertente, e quel piccolo fastidio poteva essere sopportato a fronte delle perle di saggezza che questi dispensava con così tanto altruismo. Un periodo Ciccio si mise in testa l’idea di costruire da se un’automobile: all’inizio fu quasi un gioco, ma poi, mano a mano che l’opera progrediva, la faccenda divenne seria, o meglio tragicomica. In effetti non disponendo di un box o di un’officina in cui assemblare i vari pezzi che riusciva a comprare o che riceveva da qualche amico carrozziere, Ciccio cominciò col portare tutto su in soggiorno. Il padre all’inizio lo lasciò fare pensando che da lì a breve il figlio l’avrebbe finita con quella faccenda. Il fratello e le due sorelle al contrario, intuirono che la questione stava prendendo una brutta piega. Ciccio continuava imperterrito, sebbene ogni giorno pensasse tra se e se: “Domani basta, dai, sennò qua dove andiamo a finire?”. Poi però si lasciava travolgere dagli eventi: “Perbacco, vediamo un po’ come viene montando la portiera”. Ed il giorno appresso: “Va be’ dai, aggiungo solo il paraurti e poi basta”. E ancora: “Però, proprio gentile Tommasino a regalarmi sto cofano: che faccio, non lo monto?”. Il soggiorno si era trasformato in auto-officina, chiazze d’olio in terra e attrezzi ovunque. Ciccio per la maggior parte del giorno era occupato in quella attività frenetica, aveva gli occhi spiritati ed appariva sporco di grasso fino alle orecchie. La famiglia, che pure non aveva mai creduto del tutto alla sua sanità di mente, cominciò a temere il peggio.
Dopo tre mesi di montaggi furiosi giunse un carro-attrezzi sotto casa. Scese un uomo tarchiato, sulla cinquantina, in tuta da lavoro e gridò verso la finestra: «Uhe Ciccio, t’ho portato quel motore, apri il portone». Il padre rabbrividì. Ciccio scese di volata in strada e fu subito circondato dai passanti che, non avendolo più visto da giorni, erano alquanto preoccupati. Qualcuno approfittò di quella apparizione per cercare di risolvere alcuni dei quesiti esistenziali rimasti in sospeso, a causa di quella perdurante assenza. Ciccio, in uno stato emotivo paurosamente traballante, cacciò via tutti minacciandoli con una chiave inglese da ventiquattro. A sera l’opera era compiuta. Ciccio salì in auto in un silenzio suggestivo: respirava a fatica e gli tremavano le mani. I familiari assistevano alla scena sbirciando dalla porta della cucina. La chiave girò nel quadro e il motore partì. Ciccio era in stato di trance. Il padre entrò nel soggiorno-officina seguito dagli altri figli, si avvicinò alla berlinetta e bussò con le nocche al finestrino. Ciccio si voltò verso di lui, lo sguardo assente. Il padre picchiò nuovamente, questa volta con violenza: Ciccio dopo qualche istante riconobbe il volto dell’anziano genitore e gli sorrise. A quel punto il padre aprì di scatto la portiera e gli chiese pacatamente: «Come cazzo intendi portarla giù adesso?».
Ciccio serrò le labbra, abbassò lo sguardo e rispose con un fil di voce: «Non c’ho ancora riflettuto bene, papà…!».
Passarono i mesi e tutto tornò alla normalità, o quasi. Ciccio cercò di convincere il padre che abbattere il muro esterno dell’appartamento era la soluzione migliore, ma di fronte alla ventilata ipotesi di far intervenire la neuro-deliri, ritirò molto opportunamente la proposta. Non gli restò che smontare l’automobile, pezzo per pezzo.
Trascorsero due anni e il fratello maggiore si sposò con una ragazza che aveva dei parenti emigrati in Lombardia. Alle nozze e al seguente ricevimento parteciparono un gran numero di invitati. Ciccio capitò non si sa come al tavolo dei parenti della sposa, giunti il giorno prima dopo un lungo viaggio in treno. La conversazione ferveva e il nostro era felice come poche volte gli era successo. Trovava oltremodo interessante parlare con il fratello della cognata, uomo colto e appassionato di storia romana antica. Costui ne sapeva così tante che Ciccio a stento riusciva a seguirlo, nonostante la sua approfondita conoscenza dell’argomento. A metà serata, dopo aver ascoltato i racconti che, partendo da Re Numitore arrivavano alla battaglia di Ponte Milvio, Ciccio ondeggiò paurosamente sulla sedia e portandosi le mani alla testa urlò: «Bastaaaa, mi scoppia la testa: ma come fai a sapere tutte queste cose, cazzoooo?».
Tornato in se si ributtò nella discussione, ma questa volta volle sapere dai commensali come si vivesse su al Nord. Tra tutte le cose che ascoltò, una più delle altre lo colpì: la differenza dei prezzi, soprattutto dei generi alimentari. Ne ebbe quasi un dolore fisico. «Eh sentiamo un po’ - chiese ai presenti - per esempio un chilogrammo di pane quanto lo pagate?».
«Eh be’ - rispose lo storico - il pane va dalle due alle tremila lire al chilogrammo».
Ciccio trasecolò: «Nooooo, possibile? Mi dispiace, mi dispiace veramente…!».
La notizia lo aveva tremendamente scosso: era uno strazio pensare a quanto spendessero quelle brave persone per un po’ di pane. Si rinchiuse in se stesso e per quasi un’ora stette in assoluto silenzio, cupo e pensieroso. I commensali, pur accorgendosi di quello strano atteggiamento, fecero finta di niente. Poi, tutto d’un tratto Ciccio, si riebbe e l’espressione tornò ad illuminarsi. «Sentitemi bene: ho riflettuto su questa faccenda, eh…».
«Quale faccenda?» - lo interruppe una signora alla sua destra.
«Come quale faccenda? Quella del pane, no…!».
«Ah giusto, mi scusi sa - fece la signora - , pensavo che quell’argomento fosse chiuso…!».
«Ma che chiuso e chiuso: ascoltatemi bene. Dunque io ho pensato di fare in questa maniera: un mio caro amico fa il trasportatore e ha un camion con rimorchio. Il giovedì viene al nord vuoto per prendere un carico. Sentite che idea che mi è venuta: io il mercoledì sera vado giù al forno e ordino il pane, le ruote di pane pugliese, giusto? Sapete a quanto vanno al chilo? Mille lire, mille lire al chilo…! Che ve ne pare? Un affare, no? Ecco, poi il giorno dopo facciamo il carico sul tir e partiamo. In serata siamo a Milano. Svuotiamo il camion e ce ne torniamo a Foggia con l’altro carico».
Ci fu una rincorsa di occhi sgranati tra i commensali. «Scusami un secondo Ciccio - fece il tipo alla sua sinistra - , ma approssimativamente quanti chilogrammi di pane ci vorresti spedire? Così, tanto per avere un’idea».
«Eh be’- fece lui - , esattamente non lo so: però saranno almeno due o tre tonnellate».
«Tre tonnellate di pane? - replicò la signora - Ma io a casa ho appena uno sgabuzzino: dove credi che le possa mettere tre tonnellate di pane?».
«Ah be’ questo proprio non lo so: ad ogni modo il trasporto fino a Milano è a carico vostro».
(Il Cialtrone, 2012)
All’epoca in cui viveva ancora a casa del padre era appassionato di motori, soprattutto di motociclette. Dal momento che la prima gliel’avevano rubata sotto casa, aveva deciso che la soluzione migliore, per evitare un secondo furto, fosse portare la seconda direttamente in casa, su al terzo piano. La moto, una Kawasaki 750, rombava paurosamente su e giù per le scale del condominio ogni mattina e sera, lasciando spaventevoli miasmi per ore, oltre alle sgommate sui muri, ma i vicini non si lamentavano più di tanto: in fondo Ciccio - così lo chiamavano tutti ormai da anni - era simpatico e divertente, e quel piccolo fastidio poteva essere sopportato a fronte delle perle di saggezza che questi dispensava con così tanto altruismo. Un periodo Ciccio si mise in testa l’idea di costruire da se un’automobile: all’inizio fu quasi un gioco, ma poi, mano a mano che l’opera progrediva, la faccenda divenne seria, o meglio tragicomica. In effetti non disponendo di un box o di un’officina in cui assemblare i vari pezzi che riusciva a comprare o che riceveva da qualche amico carrozziere, Ciccio cominciò col portare tutto su in soggiorno. Il padre all’inizio lo lasciò fare pensando che da lì a breve il figlio l’avrebbe finita con quella faccenda. Il fratello e le due sorelle al contrario, intuirono che la questione stava prendendo una brutta piega. Ciccio continuava imperterrito, sebbene ogni giorno pensasse tra se e se: “Domani basta, dai, sennò qua dove andiamo a finire?”. Poi però si lasciava travolgere dagli eventi: “Perbacco, vediamo un po’ come viene montando la portiera”. Ed il giorno appresso: “Va be’ dai, aggiungo solo il paraurti e poi basta”. E ancora: “Però, proprio gentile Tommasino a regalarmi sto cofano: che faccio, non lo monto?”. Il soggiorno si era trasformato in auto-officina, chiazze d’olio in terra e attrezzi ovunque. Ciccio per la maggior parte del giorno era occupato in quella attività frenetica, aveva gli occhi spiritati ed appariva sporco di grasso fino alle orecchie. La famiglia, che pure non aveva mai creduto del tutto alla sua sanità di mente, cominciò a temere il peggio.
Dopo tre mesi di montaggi furiosi giunse un carro-attrezzi sotto casa. Scese un uomo tarchiato, sulla cinquantina, in tuta da lavoro e gridò verso la finestra: «Uhe Ciccio, t’ho portato quel motore, apri il portone». Il padre rabbrividì. Ciccio scese di volata in strada e fu subito circondato dai passanti che, non avendolo più visto da giorni, erano alquanto preoccupati. Qualcuno approfittò di quella apparizione per cercare di risolvere alcuni dei quesiti esistenziali rimasti in sospeso, a causa di quella perdurante assenza. Ciccio, in uno stato emotivo paurosamente traballante, cacciò via tutti minacciandoli con una chiave inglese da ventiquattro. A sera l’opera era compiuta. Ciccio salì in auto in un silenzio suggestivo: respirava a fatica e gli tremavano le mani. I familiari assistevano alla scena sbirciando dalla porta della cucina. La chiave girò nel quadro e il motore partì. Ciccio era in stato di trance. Il padre entrò nel soggiorno-officina seguito dagli altri figli, si avvicinò alla berlinetta e bussò con le nocche al finestrino. Ciccio si voltò verso di lui, lo sguardo assente. Il padre picchiò nuovamente, questa volta con violenza: Ciccio dopo qualche istante riconobbe il volto dell’anziano genitore e gli sorrise. A quel punto il padre aprì di scatto la portiera e gli chiese pacatamente: «Come cazzo intendi portarla giù adesso?».
Ciccio serrò le labbra, abbassò lo sguardo e rispose con un fil di voce: «Non c’ho ancora riflettuto bene, papà…!».
Passarono i mesi e tutto tornò alla normalità, o quasi. Ciccio cercò di convincere il padre che abbattere il muro esterno dell’appartamento era la soluzione migliore, ma di fronte alla ventilata ipotesi di far intervenire la neuro-deliri, ritirò molto opportunamente la proposta. Non gli restò che smontare l’automobile, pezzo per pezzo.
Trascorsero due anni e il fratello maggiore si sposò con una ragazza che aveva dei parenti emigrati in Lombardia. Alle nozze e al seguente ricevimento parteciparono un gran numero di invitati. Ciccio capitò non si sa come al tavolo dei parenti della sposa, giunti il giorno prima dopo un lungo viaggio in treno. La conversazione ferveva e il nostro era felice come poche volte gli era successo. Trovava oltremodo interessante parlare con il fratello della cognata, uomo colto e appassionato di storia romana antica. Costui ne sapeva così tante che Ciccio a stento riusciva a seguirlo, nonostante la sua approfondita conoscenza dell’argomento. A metà serata, dopo aver ascoltato i racconti che, partendo da Re Numitore arrivavano alla battaglia di Ponte Milvio, Ciccio ondeggiò paurosamente sulla sedia e portandosi le mani alla testa urlò: «Bastaaaa, mi scoppia la testa: ma come fai a sapere tutte queste cose, cazzoooo?».
Tornato in se si ributtò nella discussione, ma questa volta volle sapere dai commensali come si vivesse su al Nord. Tra tutte le cose che ascoltò, una più delle altre lo colpì: la differenza dei prezzi, soprattutto dei generi alimentari. Ne ebbe quasi un dolore fisico. «Eh sentiamo un po’ - chiese ai presenti - per esempio un chilogrammo di pane quanto lo pagate?».
«Eh be’ - rispose lo storico - il pane va dalle due alle tremila lire al chilogrammo».
Ciccio trasecolò: «Nooooo, possibile? Mi dispiace, mi dispiace veramente…!».
La notizia lo aveva tremendamente scosso: era uno strazio pensare a quanto spendessero quelle brave persone per un po’ di pane. Si rinchiuse in se stesso e per quasi un’ora stette in assoluto silenzio, cupo e pensieroso. I commensali, pur accorgendosi di quello strano atteggiamento, fecero finta di niente. Poi, tutto d’un tratto Ciccio, si riebbe e l’espressione tornò ad illuminarsi. «Sentitemi bene: ho riflettuto su questa faccenda, eh…».
«Quale faccenda?» - lo interruppe una signora alla sua destra.
«Come quale faccenda? Quella del pane, no…!».
«Ah giusto, mi scusi sa - fece la signora - , pensavo che quell’argomento fosse chiuso…!».
«Ma che chiuso e chiuso: ascoltatemi bene. Dunque io ho pensato di fare in questa maniera: un mio caro amico fa il trasportatore e ha un camion con rimorchio. Il giovedì viene al nord vuoto per prendere un carico. Sentite che idea che mi è venuta: io il mercoledì sera vado giù al forno e ordino il pane, le ruote di pane pugliese, giusto? Sapete a quanto vanno al chilo? Mille lire, mille lire al chilo…! Che ve ne pare? Un affare, no? Ecco, poi il giorno dopo facciamo il carico sul tir e partiamo. In serata siamo a Milano. Svuotiamo il camion e ce ne torniamo a Foggia con l’altro carico».
Ci fu una rincorsa di occhi sgranati tra i commensali. «Scusami un secondo Ciccio - fece il tipo alla sua sinistra - , ma approssimativamente quanti chilogrammi di pane ci vorresti spedire? Così, tanto per avere un’idea».
«Eh be’- fece lui - , esattamente non lo so: però saranno almeno due o tre tonnellate».
«Tre tonnellate di pane? - replicò la signora - Ma io a casa ho appena uno sgabuzzino: dove credi che le possa mettere tre tonnellate di pane?».
«Ah be’ questo proprio non lo so: ad ogni modo il trasporto fino a Milano è a carico vostro».
(Il Cialtrone, 2012)
martedì 28 gennaio 2014
Ci mancava solo questa…
Questa è davvero ‘buona’: al cinema arrivano i letti matrimoniali. Ecco qua la novità più eclatante nel panorama delle sale cinematografiche del 2014. L’idea geniali è venuta ai ‘creativi’ di un noto mobilificio svedese: per lanciare nuovi prodotti, l’azienda ha pensato bene di realizzare una campagna pubblicitaria sostituendo le vecchie poltrone del cinema ‘Olympia’ di Parigi, con dei comodissimi letti a due piazze, forniti naturalmente di cuscini, lenzuola di seta finissima e coperte di piume d’oca della Dordogne-Périgord. Pare che la clientela abbia molto apprezzato la simpatica trovata. L’idea peraltro è talmente piaciuta agli attentissimi studiosi delle mode e delle tendenze globali, che in molti stati - dall’Inghilterra all’Estremo Oriente - è tutta una corsa a sbarazzarsi delle vetuste e austere sedute classiche, e ad attrezzarsi con confortevoli letti. “Finalmente potrete guardare il film accoccolati accanto al vostro partner, da soli, belli spaparanzati o - perché no?! - vicini a uno sconosciuto con cui iniziare un qualche approccio”. Ecco cosa si legge sulla stampa, a commento di questa sensazionale svolta nel mondo del cinema. D’altra parte era pur immaginabile che prima o poi si dovesse arrivare a questo punto: chiusi i vecchi e pulciosi cinematografi di una volta, attrezzati con le scomodissime sedie di legno a ribaltamento (che causavano quella particolarissima sensazione chiamata “cartonatura natiche”), si è passati alle avveniristiche multisale fornite di poltrone soffici ed ergonomiche; e poi si è arrivati agli schermi super definiti, ai visori ottici per l’effetto tridimensionale, alle poltrone semoventi e agli odori in sala (un vero toccasana per coprire ben altri odori che da sempre, nel buoi della sala, si diffondono impunemente). Il tutto ovviamente per coinvolgere sempre più lo spettatore nella visione della pellicola. Ebbene, da oggi, sarà altresì possibile godersi il film comodamente distesi sul letto; e come maliziosamente fanno notare i media, nel contesto oscuro della sala, ci si potrà dilettare anche con qualche extra non propriamente connesso alla visione del film. Che meraviglia…! Oddio, a ben vedere da sempre il cinema è anche luogo di tenerezze tra amanti e innamorati, e non c’era certo bisogno di fornire addirittura un letto per agevolare questa pratica licenziosa. Anche perché, come dice giustamente il sagace Brunetta, “quando carichi una pistola, poi devi sparare”. Ma si sa, la vita di tutti i giorni è talmente stressante, che un buon letto comodo potrebbe essere la soluzione ideale per rilassarsi in maniera definitiva. Anche al costo di qualche deroga alla pubblica morale. No, piuttosto quello che mi preoccupa è ben altro: al cinema, va da se, non vengono proiettati sempre e soltanto dei capolavori, ahimè, e quando capita il filmaccio recitato da cani, la tentazione di assopirsi e sfruttare dunque meglio atmosfera, tepore e oscurità, è fortissima: il letto in sala sarà a questo punto il valore aggiunto ideale. Che ne sarà tuttavia degli altri sfortunati spettatori che si troveranno al cospetto del bell’addormentato, in preda ovviamente a sconci “russamenti”, associati ad urli agghiaccianti e improvvisi, causati da spaventevoli incubi? Potranno eventualmente costoro chiedere il rimborso del prezzo del biglietto? Non è dato sapere. E poi, è previsto un servizio di sveglia “in camera”? e il caffè si paga a parte, o è compreso nel prezzo? E il pigiama, occorre portarselo da casa o lo fornisce l’organizzazione? Restando in attesa di notizie certe, auguriamo a tutti buona visione.
Fonte: http://www.tgcom24.mediaset.it/magazine/2014/notizia/a-letto-con-un-buon-film-ma-al-cinema_2022125.shtml
Fonte: http://www.tgcom24.mediaset.it/magazine/2014/notizia/a-letto-con-un-buon-film-ma-al-cinema_2022125.shtml
lunedì 27 gennaio 2014
Croci e delizie dei viaggi in treno
Il sito Affaritaliani.it venerdì scorso ha pubblicato una gustosa ricerca sui viaggiatori in treno, ed essendo io - come tutti i lettori del blog - un amante dei viaggi in treno, non ho potuto esimermi dal leggerla molto attentamente. Lo studio, elaborato da Coesis ed eseguito su di un campione rappresentativo degli italiani, ha acceso un faro sulle abitudini, sulle manie e sui vizi dei viaggiatori su rotaia, e dai risultati sono emersi alcuni dati davvero significativi. Tanto per cominciare circa la metà degli intervistati ha dichiarato di viaggiare in treno per necessità o abitudine; mentre di questi, il 10 per cento lo fa tutte le settimane. Il 49 per cento del campione afferma di utilizzare il treno come mezzo di trasporto (c’è da chiedersi, a questo punto, che altro tipo di utilizzo ne faccia il restante 51 per cento degli intervistati: forse qualcuno ci dorme su, essendo stato sfrattato; o forse ne utilizzano le ritirate, dato che le toilette delle stazioni sono diventate a pagamento…); il 39 per cento lo fa saltuariamente, il 10 per cento lo prende almeno una volta a settimana e tra questi il 5 per cento almeno cinque volte in una settimana. Ci sono poi coloro che si dichiarano amanti del viaggio sui binari senza se e senza ma, e considerano estremamente rilassante lasciarsi cullare dal leggero rollio dei convogli in corsa e dalle delicate e ripetute sonorità di sottofondo (14 per cento); solo l’8 per cento lo utilizza per andare in vacanza; mentre il 7 per cento se ne serve per motivi di lavoro.
Si, ma cosa fanno durante il viaggio coloro che utilizzano il treno? Ben i due terzi s’immergono nella lettura di un libro (che dato confortante…! certo poi dipende dal libro, ovviamente); ci sono poi quelli che ascoltano musica (32 per cento); quelli che giocano con lo smart-phone (12 per cento); quelli che parlano a telefono (9 per cento); pochissimi (3 per cento) cercano di lavorare; mentre un buon 4 per cento “si fa sistematicamente i fatti degli altri”. Ci sono per finire quelli che si godono il panorama laterale (29 per cento); e quelli che invece ne approfittano per dormire e riposarsi (17 per cento).
Ma al di là di questo, c’è un dato che emerge prepotentemente, a dare la misura del fastidio che siamo soliti provare quando dobbiamo relazionarci con il prossimo: 8 italiani su 10 dichiarano di avere avuto un vicino molesto; e il 23 per cento afferma di incontrarli sempre. E tra questi molestatori, quali sono i più nefasti e ricorrenti? Il 70 per cento degli intervistati ha dichiarato di non sopportare i chiacchieroni e coloro che parlano a telefono a voce alta. A ruota arrivano i russatori e i raffreddati (24 per cento); gli irrequieti (20 per cento) - ovvero quei rompicoglioni che non stanno mai fermi, che si alzano ogni tre minuti, che chiedono di passare continuamente: ma che si buttino giù dal finestrino e la facciano finita una buona volta… - ; quelli che, prima di uscire di casa, si fanno il bagno nelle più fetide delle acque di colonia del continente (8 per cento); i pestatori di piedi sistematici (7 per cento); e chi non saluta (4 per cento). Eppure, nonostante tutte queste spaventevoli torture, afferma lo studio, l’italiano medio che viaggia sui treni è un individuo tollerante (il 42 per cento non reagisce in nessun modo); al massimo, se proprio gli si frantumano le palle, lancia un’occhiataccia o qualche pacato rimprovero (26 per cento); quando poi proprio non ne può più, si alza e va a cercare un altro posto (30 per cento). Manca un 2 per cento al totale: speriamo che si tratti di quelli non tolleranti: “Colpirne uno per educarne cento”, si diceva una volta.
Ma ecco come ho raccontato le mie sfortunatissime esperienze con i treni e con i compagni di viaggio ne Il migliore dei mondi possibili?
Quando una ventina d’anni fa mi trasferii nella bassa padana, cominciò per me questa meravigliosa esperienza chiamata pendolarismo. Che è tutt’altra cosa rispetto al pendolismo, anche se il primo è spesso causa scatenante del secondo. D’altra parte si sa, lo stress e i sacrifici che comportano questa vita nomade, non aiutano affatto la sfera “affettiva”. A meno che, ipotesi assai remota purtroppo, non avvenga qualche incontro intrigante a bordo. E a quel punto sonno apocalittico o meno, caldo sahariano o freddo siberiano – nelle carrozze eternamente inadeguate al momento meteorologico – , poco conta: il risveglio dei sensi è assicurato. In fondo non c’è niente di più erotico di un incontro casuale d’amorosi sensi su di un treno lanciato nel nulla di un’alba appena accennata. Non per niente treni e stazioni da sempre esercitano un attrazione irresistibile per i picchiatelli. Ed infondo, chi più chi meno, tutti siamo un po’ picchiatelli. Il più delle volte invece, avviene che si salga sulla carrozza che da fuori sembra meno affollata e, tempo trenta secondi netti, ci si accorge di essere accerchiati da una valanga di pettegole ridanciane e vocianti. Anzi, gracchianti. Costoro si conoscono da anni, forse decenni, e ogni mattina – per cinque giorni a settimana – si ritrovano sullo stesso convoglio, sul medesimo vagone, identico scompartimento. E se puta caso un povero sprovveduto inavvertitamente si siede tra costoro, immediatamente gli viene fatto notare che quello è il posto della Piera, e che dunque gentilmente è pregato di andare a posare le sue stanche terga altrove. E così lo sventurato si scusa, si alza e si sistema due file più dietro. Poi tira su il cappuccio della felpa, e cerca di riposare per quell’oretta di interludio, prima che cominci l’inferno quotidiano. Ma il nostro non ha fatto i conti con il gineceo viaggiante. Gli ci vuole davvero un attimo per capire in quale drammatica situazione si è cacciato. Nel vagone cigolante si diffondono subito voci vibranti, risate argentine, urlettini, sbruffi, lamentele, versi gutturali, tutto un portentoso sonoro di sottofondo (anzi, di soprafondo) che non lascia scampo. Il disgraziato cerca di tapparsi le orecchie, finge di non sentire, si gira su un fianco sperando di ricevere attutite quelle voci, ma non c’è niente da fare: storie d’amore, tradimenti, gelosie sul posto di lavoro, invidie, rancore verso la suocera e non solo, entusiasmo ripugnante per le prodezze dei nipotini, pettegolezzi. In questi tragici momenti mattutini le donne sono davvero capaci di raggiungere delle vette strabilianti di insulsaggine. E così il nostro eroe incrocia lo sguardo con un altro disperato come lui, ed entrambi – già sconvolti e sgomenti per l’alzataccia – non riescono a fare altro che sbruffarsi in faccia reciprocamente, in un ultimo angosciante afflato di fraternità. A quel punto la situazione è già spaventosamente intollerabile. E così il nostro si sporge per vedere in faccia le disturbatrici e davanti ai suoi occhi si palesa una scena surreale: le concionanti viaggiatrici hanno tra le mani chi una trousse, chi un ombretto, chi un rossetto, e conversando amabilmente - soprattutto di quei rompicoglioni dei mariti - sono tutte intente a truccarsi, a curarsi, ad abbellirsi, a spazzolarsi i capelli. E chiacchierano, chiacchierano ad alta voce, come se fossero dalla parrucchiera o dall’estetista. Discorsi spesso dissociati gli uni dagli altri, in genere mai più di venti parole, puntualmente interrotti da voci che si sovrappongono, si parlano sopra con tono e volume crescente, s’intromettono con frasi che spezzano la continuità del ragionamento e, che in ultima analisi, suonano come parole vane e solipsistiche, pronunciate solo per se stesse. Di fronte a tale spettacolo, al nostro disperato pendolare, non resta che rassegnarsi: la sua lunga, tragica esperienza di viaggiatore forzato gli dice che se anche dovesse cercare un altro posto, la situazione non migliorerà. E dunque si risiede sconsolato e, con lo sguardo sperso nella campagna lattiginosa che lentamente emerge dall’ombra della notte, non gli resta che pensare ai giorni che lo separano dalla vacanze estive, allorché finalmente potrà allungarsi sul suo bel lettino da mare, cullato dal vento di libeccio e dal profumo di salsedine. Fatta salva naturalmente la presenza della pettegola da spiaggia. Una delle sciagure più spaventose che esistano in natura.
Fonte: http://www.affaritaliani.it/viaggi/treno210114.html
Si, ma cosa fanno durante il viaggio coloro che utilizzano il treno? Ben i due terzi s’immergono nella lettura di un libro (che dato confortante…! certo poi dipende dal libro, ovviamente); ci sono poi quelli che ascoltano musica (32 per cento); quelli che giocano con lo smart-phone (12 per cento); quelli che parlano a telefono (9 per cento); pochissimi (3 per cento) cercano di lavorare; mentre un buon 4 per cento “si fa sistematicamente i fatti degli altri”. Ci sono per finire quelli che si godono il panorama laterale (29 per cento); e quelli che invece ne approfittano per dormire e riposarsi (17 per cento).
Ma al di là di questo, c’è un dato che emerge prepotentemente, a dare la misura del fastidio che siamo soliti provare quando dobbiamo relazionarci con il prossimo: 8 italiani su 10 dichiarano di avere avuto un vicino molesto; e il 23 per cento afferma di incontrarli sempre. E tra questi molestatori, quali sono i più nefasti e ricorrenti? Il 70 per cento degli intervistati ha dichiarato di non sopportare i chiacchieroni e coloro che parlano a telefono a voce alta. A ruota arrivano i russatori e i raffreddati (24 per cento); gli irrequieti (20 per cento) - ovvero quei rompicoglioni che non stanno mai fermi, che si alzano ogni tre minuti, che chiedono di passare continuamente: ma che si buttino giù dal finestrino e la facciano finita una buona volta… - ; quelli che, prima di uscire di casa, si fanno il bagno nelle più fetide delle acque di colonia del continente (8 per cento); i pestatori di piedi sistematici (7 per cento); e chi non saluta (4 per cento). Eppure, nonostante tutte queste spaventevoli torture, afferma lo studio, l’italiano medio che viaggia sui treni è un individuo tollerante (il 42 per cento non reagisce in nessun modo); al massimo, se proprio gli si frantumano le palle, lancia un’occhiataccia o qualche pacato rimprovero (26 per cento); quando poi proprio non ne può più, si alza e va a cercare un altro posto (30 per cento). Manca un 2 per cento al totale: speriamo che si tratti di quelli non tolleranti: “Colpirne uno per educarne cento”, si diceva una volta.
Ma ecco come ho raccontato le mie sfortunatissime esperienze con i treni e con i compagni di viaggio ne Il migliore dei mondi possibili?
Quando una ventina d’anni fa mi trasferii nella bassa padana, cominciò per me questa meravigliosa esperienza chiamata pendolarismo. Che è tutt’altra cosa rispetto al pendolismo, anche se il primo è spesso causa scatenante del secondo. D’altra parte si sa, lo stress e i sacrifici che comportano questa vita nomade, non aiutano affatto la sfera “affettiva”. A meno che, ipotesi assai remota purtroppo, non avvenga qualche incontro intrigante a bordo. E a quel punto sonno apocalittico o meno, caldo sahariano o freddo siberiano – nelle carrozze eternamente inadeguate al momento meteorologico – , poco conta: il risveglio dei sensi è assicurato. In fondo non c’è niente di più erotico di un incontro casuale d’amorosi sensi su di un treno lanciato nel nulla di un’alba appena accennata. Non per niente treni e stazioni da sempre esercitano un attrazione irresistibile per i picchiatelli. Ed infondo, chi più chi meno, tutti siamo un po’ picchiatelli. Il più delle volte invece, avviene che si salga sulla carrozza che da fuori sembra meno affollata e, tempo trenta secondi netti, ci si accorge di essere accerchiati da una valanga di pettegole ridanciane e vocianti. Anzi, gracchianti. Costoro si conoscono da anni, forse decenni, e ogni mattina – per cinque giorni a settimana – si ritrovano sullo stesso convoglio, sul medesimo vagone, identico scompartimento. E se puta caso un povero sprovveduto inavvertitamente si siede tra costoro, immediatamente gli viene fatto notare che quello è il posto della Piera, e che dunque gentilmente è pregato di andare a posare le sue stanche terga altrove. E così lo sventurato si scusa, si alza e si sistema due file più dietro. Poi tira su il cappuccio della felpa, e cerca di riposare per quell’oretta di interludio, prima che cominci l’inferno quotidiano. Ma il nostro non ha fatto i conti con il gineceo viaggiante. Gli ci vuole davvero un attimo per capire in quale drammatica situazione si è cacciato. Nel vagone cigolante si diffondono subito voci vibranti, risate argentine, urlettini, sbruffi, lamentele, versi gutturali, tutto un portentoso sonoro di sottofondo (anzi, di soprafondo) che non lascia scampo. Il disgraziato cerca di tapparsi le orecchie, finge di non sentire, si gira su un fianco sperando di ricevere attutite quelle voci, ma non c’è niente da fare: storie d’amore, tradimenti, gelosie sul posto di lavoro, invidie, rancore verso la suocera e non solo, entusiasmo ripugnante per le prodezze dei nipotini, pettegolezzi. In questi tragici momenti mattutini le donne sono davvero capaci di raggiungere delle vette strabilianti di insulsaggine. E così il nostro eroe incrocia lo sguardo con un altro disperato come lui, ed entrambi – già sconvolti e sgomenti per l’alzataccia – non riescono a fare altro che sbruffarsi in faccia reciprocamente, in un ultimo angosciante afflato di fraternità. A quel punto la situazione è già spaventosamente intollerabile. E così il nostro si sporge per vedere in faccia le disturbatrici e davanti ai suoi occhi si palesa una scena surreale: le concionanti viaggiatrici hanno tra le mani chi una trousse, chi un ombretto, chi un rossetto, e conversando amabilmente - soprattutto di quei rompicoglioni dei mariti - sono tutte intente a truccarsi, a curarsi, ad abbellirsi, a spazzolarsi i capelli. E chiacchierano, chiacchierano ad alta voce, come se fossero dalla parrucchiera o dall’estetista. Discorsi spesso dissociati gli uni dagli altri, in genere mai più di venti parole, puntualmente interrotti da voci che si sovrappongono, si parlano sopra con tono e volume crescente, s’intromettono con frasi che spezzano la continuità del ragionamento e, che in ultima analisi, suonano come parole vane e solipsistiche, pronunciate solo per se stesse. Di fronte a tale spettacolo, al nostro disperato pendolare, non resta che rassegnarsi: la sua lunga, tragica esperienza di viaggiatore forzato gli dice che se anche dovesse cercare un altro posto, la situazione non migliorerà. E dunque si risiede sconsolato e, con lo sguardo sperso nella campagna lattiginosa che lentamente emerge dall’ombra della notte, non gli resta che pensare ai giorni che lo separano dalla vacanze estive, allorché finalmente potrà allungarsi sul suo bel lettino da mare, cullato dal vento di libeccio e dal profumo di salsedine. Fatta salva naturalmente la presenza della pettegola da spiaggia. Una delle sciagure più spaventose che esistano in natura.
Fonte: http://www.affaritaliani.it/viaggi/treno210114.html
venerdì 24 gennaio 2014
Gli sherpa, il popolo degli umili portatori dell’Everest
Riportiamo su queste pagine un bellissimo articolo apparso sul Corriere della Sera di oggi:
Camminare, da quando siamo scesi dagli alberi, resta una delle nostre attività principali. È un gesto ancestrale, si impara d’istinto, spesso prima di parlare. Il passo è un’impronta digitale in movimento, ognuno ha la sua. Se ci fosse un’università dove si insegnano a muovere i piedi per raggiungere una meta, gli sherpa dell’Himalaya sarebbero i docenti. Marco Vallesi è una delle due guide alpine italiane utilizzate anni fa come cavie dai ricercatori della Piramide del Cnr, base di ricerca scientifica alle pendici dell’Everest a 5 mila metri di quota, per un confronto fisiologico con gli sherpa della valle del Khumbu, in Nepal. Lui e il suo collega, dal confronto, sono usciti con le orecchie basse.
CONFRONTO - «Se li guardi camminare sui loro sentieri», spiega Marco, «vedi l’armonia del loro movimento che segue il terreno senza sprecare una stilla di energia. Sassi, legni, radici, ciò che per noi è un ostacolo, per loro diventa un appoggio». Passi corti, cadenzati, con una respirazione perfetta che non va mai in ipossia. Il professor Paolo Cerretelli, che è stato docente di fisiologia alle università di Milano e Ginevra, ha effettuato test alla Piramide che hanno mostrato come uno sherpa, a 5 mila metri, perde il 17% della sua massima potenza aerobica (in termini automobilistici, i cavalli del motore), un maratoneta professionista il 26% e un umano di sana e robusta costituzione, che pratica attività sportiva regolare, il 40%. Gli altri a 5 mila metri non ci arrivano neanche.
MUOVERSI A 4 MILA METRI - Gli sherpa, a vederli nelle strade trafficate di Kathmandu, sembrano esili, magri, di solito piccoli. Sui sentieri a 4 mila metri, dove impiegano meno di una giornata per fare un tragitto che a un umano, per quanto sano e robusto, ne costa tre, diventano una razza superiore, anche se frequentemente sottomessa. Spesso hanno una fascia che passa sulla fronte e regge una gerla con cui portano pesi che noi non riusciamo ad alzare da terra: anche 70 chilogrammi. Muoversi là sopra significa capire a fondo la natura, intuire in anticipo ciò che sta per accadere: nuvole, vento, neve, valanghe, più si sale di quota più non si può sbagliare passo. Gli sherpa di solito non sbagliano anche perché, a differenza di molti escursionisti occidentali, sanno quando è il momento di tornare indietro, di cedere il passo a montagne che possono scrollarsi di dosso chiunque nel giro di qualche secondo.
SULLA CIMA DELLA DEA - Tenzing Chhottar Sherpa ha 27 anni ed è nato a Namche Bazar, capitale della valle del Khumbu, a 3.500 metri di quota. Un pomeriggio di un anno fa si trovava al Colle Sud, a 8 mila metri, ultimo campo sul versante sud del monte Everest. Fino a quella volta non era mai salito sopra i 6 mila e si trovava lì per provare ad aggiustare la stazione meteo del Cnr, che era stata installata nel 2011 ma aveva smesso di funzionare quasi subito, come si fosse spaventata anche lei per gli elementi atmosferici che stava registrando a quella quota. Tenzing aveva fatto tardi e scendere al campo II, a 6.500 metri, era un’idea che non lo convinceva: c’era vento forte e poche ore di luce. Per uno strano e fortunato caso al Colle Sud c’era anche suo fratello maggiore, impegnato come guida in una spedizione con quattro clienti americani. Offrì ospitalità in una delle loro tende a Tenzing. «Quando eravamo dentro bisognava urlare per riuscire a sentirsi a causa del vento. Mio fratello mi spiegò che lui, altri due sherpa e i quattro clienti si sarebbero mossi alle 2 di notte per salire alla cima. Poi disse, sorridendo: “Se ti senti bene, puoi venire anche tu”. Rimasi spiazzato, non avevo mai preso in esame l’idea di salire sull’Everest, ma la prospettiva di restare da solo in tenda al Colle Sud, di notte, con quel vento, mi spaventava quasi di più che non provare a salire sulla cima. Andai con loro». A uno sherpa succede anche questo: decide a 8 mila metri di quota, perché incontra suo fratello, di salire sull’Everest. «Sono andato su bene, usando l’ossigeno e tenendo il passo degli americani, che per fortuna andavano piano. Ho avuto solo un po’ di paura in mezzo a una coda lunghissima di alpinisti prima dell’Hillary Step. Quando ero sulla cima ho visto che mancavano 30 metri al punto più alto e sapevo che ormai li avrei fatti di sicuro: ero felice, mi sono inginocchiato a pregare prima di fare gli ultimi passi».
Continua a leggere: http://www.corriere.it/ambiente/14_gennaio_22/gli-sherpa-popolo-umili-portatori-dell-everest-06955752-8370-11e3-9ab1-851e2181383b.shtml
Camminare, da quando siamo scesi dagli alberi, resta una delle nostre attività principali. È un gesto ancestrale, si impara d’istinto, spesso prima di parlare. Il passo è un’impronta digitale in movimento, ognuno ha la sua. Se ci fosse un’università dove si insegnano a muovere i piedi per raggiungere una meta, gli sherpa dell’Himalaya sarebbero i docenti. Marco Vallesi è una delle due guide alpine italiane utilizzate anni fa come cavie dai ricercatori della Piramide del Cnr, base di ricerca scientifica alle pendici dell’Everest a 5 mila metri di quota, per un confronto fisiologico con gli sherpa della valle del Khumbu, in Nepal. Lui e il suo collega, dal confronto, sono usciti con le orecchie basse.
CONFRONTO - «Se li guardi camminare sui loro sentieri», spiega Marco, «vedi l’armonia del loro movimento che segue il terreno senza sprecare una stilla di energia. Sassi, legni, radici, ciò che per noi è un ostacolo, per loro diventa un appoggio». Passi corti, cadenzati, con una respirazione perfetta che non va mai in ipossia. Il professor Paolo Cerretelli, che è stato docente di fisiologia alle università di Milano e Ginevra, ha effettuato test alla Piramide che hanno mostrato come uno sherpa, a 5 mila metri, perde il 17% della sua massima potenza aerobica (in termini automobilistici, i cavalli del motore), un maratoneta professionista il 26% e un umano di sana e robusta costituzione, che pratica attività sportiva regolare, il 40%. Gli altri a 5 mila metri non ci arrivano neanche.
MUOVERSI A 4 MILA METRI - Gli sherpa, a vederli nelle strade trafficate di Kathmandu, sembrano esili, magri, di solito piccoli. Sui sentieri a 4 mila metri, dove impiegano meno di una giornata per fare un tragitto che a un umano, per quanto sano e robusto, ne costa tre, diventano una razza superiore, anche se frequentemente sottomessa. Spesso hanno una fascia che passa sulla fronte e regge una gerla con cui portano pesi che noi non riusciamo ad alzare da terra: anche 70 chilogrammi. Muoversi là sopra significa capire a fondo la natura, intuire in anticipo ciò che sta per accadere: nuvole, vento, neve, valanghe, più si sale di quota più non si può sbagliare passo. Gli sherpa di solito non sbagliano anche perché, a differenza di molti escursionisti occidentali, sanno quando è il momento di tornare indietro, di cedere il passo a montagne che possono scrollarsi di dosso chiunque nel giro di qualche secondo.
SULLA CIMA DELLA DEA - Tenzing Chhottar Sherpa ha 27 anni ed è nato a Namche Bazar, capitale della valle del Khumbu, a 3.500 metri di quota. Un pomeriggio di un anno fa si trovava al Colle Sud, a 8 mila metri, ultimo campo sul versante sud del monte Everest. Fino a quella volta non era mai salito sopra i 6 mila e si trovava lì per provare ad aggiustare la stazione meteo del Cnr, che era stata installata nel 2011 ma aveva smesso di funzionare quasi subito, come si fosse spaventata anche lei per gli elementi atmosferici che stava registrando a quella quota. Tenzing aveva fatto tardi e scendere al campo II, a 6.500 metri, era un’idea che non lo convinceva: c’era vento forte e poche ore di luce. Per uno strano e fortunato caso al Colle Sud c’era anche suo fratello maggiore, impegnato come guida in una spedizione con quattro clienti americani. Offrì ospitalità in una delle loro tende a Tenzing. «Quando eravamo dentro bisognava urlare per riuscire a sentirsi a causa del vento. Mio fratello mi spiegò che lui, altri due sherpa e i quattro clienti si sarebbero mossi alle 2 di notte per salire alla cima. Poi disse, sorridendo: “Se ti senti bene, puoi venire anche tu”. Rimasi spiazzato, non avevo mai preso in esame l’idea di salire sull’Everest, ma la prospettiva di restare da solo in tenda al Colle Sud, di notte, con quel vento, mi spaventava quasi di più che non provare a salire sulla cima. Andai con loro». A uno sherpa succede anche questo: decide a 8 mila metri di quota, perché incontra suo fratello, di salire sull’Everest. «Sono andato su bene, usando l’ossigeno e tenendo il passo degli americani, che per fortuna andavano piano. Ho avuto solo un po’ di paura in mezzo a una coda lunghissima di alpinisti prima dell’Hillary Step. Quando ero sulla cima ho visto che mancavano 30 metri al punto più alto e sapevo che ormai li avrei fatti di sicuro: ero felice, mi sono inginocchiato a pregare prima di fare gli ultimi passi».
Continua a leggere: http://www.corriere.it/ambiente/14_gennaio_22/gli-sherpa-popolo-umili-portatori-dell-everest-06955752-8370-11e3-9ab1-851e2181383b.shtml
lunedì 20 gennaio 2014
La magia della montagna
Sabato scorso il quotidiano La Stampa ha lanciato il concorso fotografico “La mia montagna”. L’iniziativa è rivolta a tutti coloro che intendono mostrare al pubblico una fotografia che illustri un luogo particolare, un’immagine che evochi ricordi speciali, sensazioni rimaste dentro, emozioni esplose all’improvviso e che fanno parte del nostro vissuto.
“Sarebbe troppo semplice se i lettori de La Stampa mandassero tanti Cervini e K2, tante Marmolade e Cime di Lavaredo, che sono le montagne dei libri e delle cartoline illustrate. Sarebbe semplice e falso - si legge sul sito del quotidiano torinese - . Invece le montagne del cuore possono anche essere bruttine, defilate, non illustri, apparentemente insignificanti: per chi non le ama, naturalmente. I luoghi, come le persone, si assomigliano terribilmente finché non impariamo a riconoscerne i tratti e amarne le differenze. Proprio come le persone, le montagne hanno personalità, fascino, colore, tagli di luce e ombra, debolezze, asprezze e rotondità. Sono i dettagli a renderle vive, desiderabili e soprattutto uniche”.
Ed in effetti non c’è bisogno di andare in cima all’Everest per provare sensazioni uniche e straordinarie, basta trovarsi nel posto giusto e al momento giusto. Io stesso, che pure non sono uno scalatore, ma un semplice appassionato della montagna, spesso mi sono trovato a calpestare luoghi che mi hanno fatto entrare all’istante in uno stato di grazia, al cospetto di panorami che impongono silenzi contemplativi. Quasi religiosi. Raggiungere una cima - dopo piccoli o grandi sacrifici, o anche dopo piccoli o grandi rischi - è sempre una soddisfazione diversa: e non è mai come ce lo si aspetta. Erri De Luca dice che la vetta di una montagna non è mai conquista, ma sconfitta: perché più oltre di là non si può andare. Eppure, affacciarsi sulle immensità che si aprono al di là di un picco, ha un fascino impagabile, spalanca la porta sulla magia del creato. L’alta quota dà visione d’insieme, regala sguardi di profondità e, più si spinge in là la nostra vista, più ci si accorge di quanto siamo piccoli di fronte al tutto. I pochi metri che circoscrivono una vetta dunque hanno il sapore del terreno sacro, del sancta sanctorum su cui è più facile sentirsi vicini al grande mistero: non per nulla gli eremiti hanno sempre scelto le alture più impervie per trascorrere la propria vita contemplativa.
La mia prima volta su una cima fu nel 2007. Stavo partecipando ad un trekking in Val Maira, seguendo le orme di Maurizio Barbagallo, una guida simpaticamente burberaccia. Giunti sull’altopiano della Gardetta, nei pressi di Preit, ci fece lasciare lo zaino e ci propose di salire sulla vetta del Cassorso, una montagna di roccia dolomitica alta 2777 metri. C’era da salire per una quarantina di minuti su di un terreno impervio e pietroso, con qualche difficoltà tecnica nell’ultima parte. Qualcuno non se la sentì e rimase giù. Altri, pur timorosi, decisero di tentare ‘l’impresa’. Ricordo che ad un tizio di Roma, preoccupato di poter soffrire di vertigini, Maurizio consigliò - anzi impose - di portare il suo zaino pesantissimo: “Così avrai la mente occupata sul peso e non penserai alle tue paure”. Quando giungemmo in vetta, la fatica venne ampiamente ripagata. E con gli interessi. Ecco come descrissi l’arrivo in cima nel libro Santiago Express: “Giunti in vetta ci si presenta uno spettacolo che da solo vale tutta la ‘vacanza’. Dalla cima del Cassorso, più alta di diverse nuvole intorno, si domina tutta la valle, con una prospettiva simile a quella che si potrebbe avere da un aereo di linea. Il paesaggio ha assunto colori diversi, più intensi, con contrasti più marcati. A ovest si scoprono le prime vette francesi, mentre a nord le nuvole ci lasciano appena intravedere il Monviso. La nostra soddisfazione è enorme, e tale da fornire una risposta definitiva alla mia domanda sul perché si venga in montagna”.
Già, perché si va in montagna…? Perché mettere a rischio, a volte, anche la propria stessa vita? Bonatti non aveva dubbi: perché la bellezza non ha prezzo.
Seguirono poi altre esperienze, sempre più intense e spesso adrenaliniche. Sul Pasubio, ad esempio - e non mi vergogno di dirlo - provai in diversi punti sensazioni che a buona ragione posso definire strizza: strizza vera. Lungo i sentieri d’arroccamento si aprivano baratri talmente abissali e spaventosi che toglievano il fiato, e facevano rimpiangere le calde spiagge di Rimini lasciate la settimana prima. E pensare che in questi luoghi, durante la Grande Guerra, italiani e austriaci si pigliavano pure a fucilate…! Eppure, nonostante il terrore, c’era dell’altro: la paura porta sempre con se qualcosa di fascinoso, ed anche in quell’occasione vi era qualcosa di indicibilmente piacevole: il gusto della sfida, del rischio totale, un’iniezione di vita vissuta al limite, un gioco sul filo della morte.
L’anno dopo, sulle Orobie Orientali, altra esperienza al limite: salita lungo un canalone innevato in cordata, con ramponi e picozza. Il gestore del rifugio, la sera prima e tanto per ‘tranquillizzarci’ ci disse: “Una volta che sarete lassù, scoprirete se la montagna vi piace veramente…”. Seguì naturalmente una caduta che ci fece capire per la prima volta quanto fosse rischiosa la montagna e quanto rispetto le si dovesse. Giunti in cima però, dalla vedretta di Scais, scoprimmo che la montagna ci piaceva davvero.
Negli anni a seguire poi, mi sono cimentato su altre alture, sul Mont Chétif, nelle Alpi Graie (un piccolo gioiello che apre sguardi a 360 gradi su tutto il massiccio del Monte Bianco); sul Gran Sasso; sul Monte Pollino (una montagna che non ha nulla da invidiare alle Alpi…); sul Rocciamelone (il gigante della Val di Susa, creduto per molti secoli la montagna più alta del mondo). E tante altre. Vette spesso insignificanti dal punto di vista alpinistico, ma che per me hanno contato molto. Ed ogni volta che ci si affaccia da questi balconi, sempre la stessa sensazione: un tuffo al cuore, respiro mozzato, sguardo perso all’orizzonte. Ecco, per dirla con Leopardi “… mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare”.
Fonte: http://www.lastampa.it/2014/01/18/societa/montagna/dimmi-qual-la-tua-vetta-del-cuore-5y3rP7uz7lOnTgf6n5BF2L/pagina.html
“Sarebbe troppo semplice se i lettori de La Stampa mandassero tanti Cervini e K2, tante Marmolade e Cime di Lavaredo, che sono le montagne dei libri e delle cartoline illustrate. Sarebbe semplice e falso - si legge sul sito del quotidiano torinese - . Invece le montagne del cuore possono anche essere bruttine, defilate, non illustri, apparentemente insignificanti: per chi non le ama, naturalmente. I luoghi, come le persone, si assomigliano terribilmente finché non impariamo a riconoscerne i tratti e amarne le differenze. Proprio come le persone, le montagne hanno personalità, fascino, colore, tagli di luce e ombra, debolezze, asprezze e rotondità. Sono i dettagli a renderle vive, desiderabili e soprattutto uniche”.
Ed in effetti non c’è bisogno di andare in cima all’Everest per provare sensazioni uniche e straordinarie, basta trovarsi nel posto giusto e al momento giusto. Io stesso, che pure non sono uno scalatore, ma un semplice appassionato della montagna, spesso mi sono trovato a calpestare luoghi che mi hanno fatto entrare all’istante in uno stato di grazia, al cospetto di panorami che impongono silenzi contemplativi. Quasi religiosi. Raggiungere una cima - dopo piccoli o grandi sacrifici, o anche dopo piccoli o grandi rischi - è sempre una soddisfazione diversa: e non è mai come ce lo si aspetta. Erri De Luca dice che la vetta di una montagna non è mai conquista, ma sconfitta: perché più oltre di là non si può andare. Eppure, affacciarsi sulle immensità che si aprono al di là di un picco, ha un fascino impagabile, spalanca la porta sulla magia del creato. L’alta quota dà visione d’insieme, regala sguardi di profondità e, più si spinge in là la nostra vista, più ci si accorge di quanto siamo piccoli di fronte al tutto. I pochi metri che circoscrivono una vetta dunque hanno il sapore del terreno sacro, del sancta sanctorum su cui è più facile sentirsi vicini al grande mistero: non per nulla gli eremiti hanno sempre scelto le alture più impervie per trascorrere la propria vita contemplativa.
La mia prima volta su una cima fu nel 2007. Stavo partecipando ad un trekking in Val Maira, seguendo le orme di Maurizio Barbagallo, una guida simpaticamente burberaccia. Giunti sull’altopiano della Gardetta, nei pressi di Preit, ci fece lasciare lo zaino e ci propose di salire sulla vetta del Cassorso, una montagna di roccia dolomitica alta 2777 metri. C’era da salire per una quarantina di minuti su di un terreno impervio e pietroso, con qualche difficoltà tecnica nell’ultima parte. Qualcuno non se la sentì e rimase giù. Altri, pur timorosi, decisero di tentare ‘l’impresa’. Ricordo che ad un tizio di Roma, preoccupato di poter soffrire di vertigini, Maurizio consigliò - anzi impose - di portare il suo zaino pesantissimo: “Così avrai la mente occupata sul peso e non penserai alle tue paure”. Quando giungemmo in vetta, la fatica venne ampiamente ripagata. E con gli interessi. Ecco come descrissi l’arrivo in cima nel libro Santiago Express: “Giunti in vetta ci si presenta uno spettacolo che da solo vale tutta la ‘vacanza’. Dalla cima del Cassorso, più alta di diverse nuvole intorno, si domina tutta la valle, con una prospettiva simile a quella che si potrebbe avere da un aereo di linea. Il paesaggio ha assunto colori diversi, più intensi, con contrasti più marcati. A ovest si scoprono le prime vette francesi, mentre a nord le nuvole ci lasciano appena intravedere il Monviso. La nostra soddisfazione è enorme, e tale da fornire una risposta definitiva alla mia domanda sul perché si venga in montagna”.
Già, perché si va in montagna…? Perché mettere a rischio, a volte, anche la propria stessa vita? Bonatti non aveva dubbi: perché la bellezza non ha prezzo.
Seguirono poi altre esperienze, sempre più intense e spesso adrenaliniche. Sul Pasubio, ad esempio - e non mi vergogno di dirlo - provai in diversi punti sensazioni che a buona ragione posso definire strizza: strizza vera. Lungo i sentieri d’arroccamento si aprivano baratri talmente abissali e spaventosi che toglievano il fiato, e facevano rimpiangere le calde spiagge di Rimini lasciate la settimana prima. E pensare che in questi luoghi, durante la Grande Guerra, italiani e austriaci si pigliavano pure a fucilate…! Eppure, nonostante il terrore, c’era dell’altro: la paura porta sempre con se qualcosa di fascinoso, ed anche in quell’occasione vi era qualcosa di indicibilmente piacevole: il gusto della sfida, del rischio totale, un’iniezione di vita vissuta al limite, un gioco sul filo della morte.
L’anno dopo, sulle Orobie Orientali, altra esperienza al limite: salita lungo un canalone innevato in cordata, con ramponi e picozza. Il gestore del rifugio, la sera prima e tanto per ‘tranquillizzarci’ ci disse: “Una volta che sarete lassù, scoprirete se la montagna vi piace veramente…”. Seguì naturalmente una caduta che ci fece capire per la prima volta quanto fosse rischiosa la montagna e quanto rispetto le si dovesse. Giunti in cima però, dalla vedretta di Scais, scoprimmo che la montagna ci piaceva davvero.
Negli anni a seguire poi, mi sono cimentato su altre alture, sul Mont Chétif, nelle Alpi Graie (un piccolo gioiello che apre sguardi a 360 gradi su tutto il massiccio del Monte Bianco); sul Gran Sasso; sul Monte Pollino (una montagna che non ha nulla da invidiare alle Alpi…); sul Rocciamelone (il gigante della Val di Susa, creduto per molti secoli la montagna più alta del mondo). E tante altre. Vette spesso insignificanti dal punto di vista alpinistico, ma che per me hanno contato molto. Ed ogni volta che ci si affaccia da questi balconi, sempre la stessa sensazione: un tuffo al cuore, respiro mozzato, sguardo perso all’orizzonte. Ecco, per dirla con Leopardi “… mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare”.
Fonte: http://www.lastampa.it/2014/01/18/societa/montagna/dimmi-qual-la-tua-vetta-del-cuore-5y3rP7uz7lOnTgf6n5BF2L/pagina.html
venerdì 17 gennaio 2014
Attività del Listone 2013
Di seguito riportiamo le principali iniziative realizzate dal Club del Listone nel corso del 2013. È poca cosa rispetto agli anni precedenti, ma come si sa, l’anno che se n’è andato è stato quello più piovoso da 200 anni a questa parte, ed il maltempo si è fatto sentire soprattutto nei mesi primaverili, stagione nella quale si è sempre concentrata la maggior parte delle attività (a marzo c’è stata pioggia ogni due giorni, e fino a metà aprile le temperature massime sono state inferiori ai 10 gradi: per avere un po’ di caldo abbiamo dovuto aspettare metà giugno). Nonostante ciò tuttavia, nei mesi estivi ci siamo rifatti. E con gli interessi…!
26 gen. Prima cena dell’anno a Milano. Presso un fetido ristorante sito lungo un corso alberato adiacente a via Novara, grigliatina di pesce da €.14, innaffiata da “ottimo” vino bianco. Post cena in un pub periferico, semideserto e assai squallido. Notte a casa di Simona. Senza riscaldamento. Presenti: Alessandra, Simona, Elena (da Busto Arsizio), Leonardo, Lorenzo (?), Pierangelo, Fabio, Luigi.
01 apr. Pasqua: a Milano con Simona, Giovanna, Lorenzo, Robertino. Lunga passeggiata dal Duomo ai Navigli seguendo via Torino e Porta Ticinese. Visita alla Basilica di Sant’Ambrogio (con un sontuoso matrimonio in corso…), e ritorno al Duomo seguendo Corso Magenta e Cordusio.
25 apr. Gita a Sirmione: Giovanna, Elena (da Vicenza), Elena (da Busto Arsizio), Robertino. Finalmente una giornata di sole. Camminata da Desenzano del Garda a Sirmione (2h.). Visita alle monumentali Grotte di Catullo (che non sono affatto grotte, ma i resti di un’immensa villa patrizia...). Da ricordare il gigantesco gelato consumato a fatica lungo le sponde del lago: 3 etti e mezzo di cioccolato e stracciatella…! Porzione adeguata agli abituali visitatori teutonici, non certo ai piccoli italianucci di gamba corta.
7/9 giu. Biciclettata di mezza primavera: Rimini. Primo giro, 92 km. (Rimini - Morciano - Mondaino - Monte Gridolfo - Gradara - Gabicce - Rimini). Secondo giro, 60 km. (Rimini - ciclabile del Marecchia - Verrucchio - Sant’Arcangelo di Romagna - Torre Pedrera - Rimini). Partecipanti: Alessandra (da Como), Alessandra (da Pescara), Alfio, Sara, Luigi.
29/30 giu. Biciclettata lungo i Navigli: Martesana, Grande, Bereguardo, Pavese. Da Cassano d’Adda alla Cassina de’ Pomm, seguendo il Naviglio Martesana (28 km.). Da qui (via Melchiorre Gioia) al Duomo e successivo ritrovo davanti alla Chiesa di Sant’Eustorgio (dove riposano le spoglie mortali dei Re Magi). Seguendo il Naviglio Grande, si raggiunge Abbiategrasso e da qui si prosegue lungo le sponde del Naviglio di Bereguardo (ora declassato a canale non più navigabile…). Giunti al ponte delle barche incrociamo il Ticino: 100 km. Pernottamento a Binasco, da Giovanna. Il giorno dopo si prosegue lungo il Naviglio di Bereguardo fino a raggiungere Pavia. Visita della città, e ritorno per la stessa via fino alla Certosa di Pavia. Breve sosta e ritorno a Milano seguendo le sponde del Naviglio Pavese. Giunti a Milano, saluto gli amici che prendono il treno, mentre io vado a riprendere il Naviglio Martesana per ritornare a Cassano d’Adda dove ho la macchina: 96 km. Giovanna, Elena (da Vicenza), Lorenzo, Enrico, Davide, Sara, Luigi.
27 lug. In Val Sassina con Davide e Sara: cascate di Introbio.
10/23 ago. Bike Tour Marche & Abruzzo: Gabicce - Urbino - Jesi - Numana (Conero) - Santuario di Loreto - Recanati - Loro Piceno - Ascoli Piceno - Amatrice - l’Aquila - Sulmona - Roccamorice - Ortona - Costa dei Trabocchi - Pescara: 930 km.
27/29 sett. Lago di Lugano, Porlezza. Trekking in Valsolda. Da Darsio (500 mslm) si sale, ma perdiamo i segni sul sentiero: raggiungimento involontario del confine svizzero (1.800 mslm). Invece di fare un anello, siamo finiti sul confine, nei pressi di San Lucio. Recuperati da un amico dell’Ale. Ale, Simona, Lorenzo, Robertino, Elena (da Busto Arsizio).
19 nov. Apericena a Milano, zona Porta Venezia: Elena (da Busto Arsizio), Simona, Lorenzo, Enrico.
23 nov. Ritorno al nord di Salvo da Roma e passeggiata lungo le strade umide e fredde di una Milano già agghindata per l’inverno. Pranzo presso l’osteria “Alla vecchia maniera” sull’alzaia del Naviglio Grande. Mangiata pantagruelica di Leonardo (sponsorizzato da Enrico. E un po’ anche da Lorenzo…).
30 dic. - 3 gennaio Capodanno in Umbria: base fissa a Perugia e poi giri per Assisi, Spello, Spoleto, Foligno, Gubbio. Salvo, Robertino, Enrico, Lorenzo, Leonardo, Alessandro (il Professore di Roma).
26 gen. Prima cena dell’anno a Milano. Presso un fetido ristorante sito lungo un corso alberato adiacente a via Novara, grigliatina di pesce da €.14, innaffiata da “ottimo” vino bianco. Post cena in un pub periferico, semideserto e assai squallido. Notte a casa di Simona. Senza riscaldamento. Presenti: Alessandra, Simona, Elena (da Busto Arsizio), Leonardo, Lorenzo (?), Pierangelo, Fabio, Luigi.
01 apr. Pasqua: a Milano con Simona, Giovanna, Lorenzo, Robertino. Lunga passeggiata dal Duomo ai Navigli seguendo via Torino e Porta Ticinese. Visita alla Basilica di Sant’Ambrogio (con un sontuoso matrimonio in corso…), e ritorno al Duomo seguendo Corso Magenta e Cordusio.
25 apr. Gita a Sirmione: Giovanna, Elena (da Vicenza), Elena (da Busto Arsizio), Robertino. Finalmente una giornata di sole. Camminata da Desenzano del Garda a Sirmione (2h.). Visita alle monumentali Grotte di Catullo (che non sono affatto grotte, ma i resti di un’immensa villa patrizia...). Da ricordare il gigantesco gelato consumato a fatica lungo le sponde del lago: 3 etti e mezzo di cioccolato e stracciatella…! Porzione adeguata agli abituali visitatori teutonici, non certo ai piccoli italianucci di gamba corta.
Rimini, giugno 2013 |
29/30 giu. Biciclettata lungo i Navigli: Martesana, Grande, Bereguardo, Pavese. Da Cassano d’Adda alla Cassina de’ Pomm, seguendo il Naviglio Martesana (28 km.). Da qui (via Melchiorre Gioia) al Duomo e successivo ritrovo davanti alla Chiesa di Sant’Eustorgio (dove riposano le spoglie mortali dei Re Magi). Seguendo il Naviglio Grande, si raggiunge Abbiategrasso e da qui si prosegue lungo le sponde del Naviglio di Bereguardo (ora declassato a canale non più navigabile…). Giunti al ponte delle barche incrociamo il Ticino: 100 km. Pernottamento a Binasco, da Giovanna. Il giorno dopo si prosegue lungo il Naviglio di Bereguardo fino a raggiungere Pavia. Visita della città, e ritorno per la stessa via fino alla Certosa di Pavia. Breve sosta e ritorno a Milano seguendo le sponde del Naviglio Pavese. Giunti a Milano, saluto gli amici che prendono il treno, mentre io vado a riprendere il Naviglio Martesana per ritornare a Cassano d’Adda dove ho la macchina: 96 km. Giovanna, Elena (da Vicenza), Lorenzo, Enrico, Davide, Sara, Luigi.
Lungo i Navigli |
10/23 ago. Bike Tour Marche & Abruzzo: Gabicce - Urbino - Jesi - Numana (Conero) - Santuario di Loreto - Recanati - Loro Piceno - Ascoli Piceno - Amatrice - l’Aquila - Sulmona - Roccamorice - Ortona - Costa dei Trabocchi - Pescara: 930 km.
Bike Tour Marche & Abruzzo |
23 nov. Ritorno al nord di Salvo da Roma e passeggiata lungo le strade umide e fredde di una Milano già agghindata per l’inverno. Pranzo presso l’osteria “Alla vecchia maniera” sull’alzaia del Naviglio Grande. Mangiata pantagruelica di Leonardo (sponsorizzato da Enrico. E un po’ anche da Lorenzo…).
30 dic. - 3 gennaio Capodanno in Umbria: base fissa a Perugia e poi giri per Assisi, Spello, Spoleto, Foligno, Gubbio. Salvo, Robertino, Enrico, Lorenzo, Leonardo, Alessandro (il Professore di Roma).
mercoledì 15 gennaio 2014
Leggere ci cambia dentro (e non solo in senso figurato…)
Io non ho mai amato alla follia le trasposizioni cinematografiche dei romanzi, nemmeno quelle riuscite meglio. Più che aggiungere valore all’opera letteraria, ho sempre l’impressione che queste pellicole sottraggano bellezza e fascino all’originale. Il fatto è che leggendo, nella mente di ognuno si crea una realtà virtuale personalissima, i personaggi assumono contorni e fisionomie ben precise, le ambientazioni - soprattutto se ben descritte - appaiono vere, reali e ‘arredate’ a seconda del gusto del singolo lettore. In altre parole, pur nei perimetri tracciati dall’autore, ognuno è libero di dare sfogo alla propria fantasia. Ma tutto ciò, per forza di cose, viene meno nella rappresentazione cinematografica: in questo caso infatti saranno gli sceneggiatori, i registi, i costumisti, i curatori della fotografia a trasformare la fantasia in rappresentazione visiva. Allo spettatore dunque non resterà altro che il compito di assistere al pacchetto completo, al ‘chiavi in mano’ dell’arte letteraria divenuta immagine. Il che può anche andar bene - ancor meglio se si tratta di un prodotto di qualità - se lo spettatore non ha letto prima il testo da cui è tratto il film. Viceversa - almeno così accade a me - nella stragrande maggioranza dei casi s’innescherà subito il paragone, il confronto critico, la ricerca delle differenze, e il sentimento che si proverà, quasi sempre è la delusione. Il che è ampiamente comprensibile. D’altra parte come si può pensare di riprodurre, per esempio, ‘Anna Karenina’ o ‘Delitto e castigo’, mantenendo, o anche solo cercando di accostarsi, al livello artistico raggiunto da Tolstoj o Dostoevskij? Impossibile. E questo si verifica immancabilmente anche quando le pellicole dispongono di cast stellari e budget illimitati. Quando nel ’57 uscì nelle sale ‘Addio alle armi’ per esempio, c’erano tutti gli ingredienti perché il film fosse un capolavoro: protagonisti di prim’ordine e all’apice del successo (Rock Hudson e Jennifer Jones), registi famosi (Charles Vidor e John Huston), produttore d’eccezione (Selznick Studio, lo stesso che confezionò ‘Via col vento’). Eppure la critica nei confronti del film fu impietosa, e a buona ragione: il romanzo di Hemingway era stato ridotto ad una melensa storia d’amore e nulla più. Come volevasi dimostrare.
Guardare un film non è neanche lontanamente comparabile alla lettura di un libro: c’è poco da fare. Mentre nel primo caso siamo semplici osservatori, contenitori nei quali si riversa la ‘pappa pronta’, nel secondo siamo creatori di materia viva, registi noi stessi di un copione originale, unico, tutto a nostra disposizione. E davanti a noi non vi sono giganteschi schermi ultrapiatti e casse acustiche strombazzanti, ma praterie sterminate di colori, panorami, volti, lineamenti, sembianze pescate nel nostro recondito, nel nostro vissuto, a cui la nostra fantasia da razionalità e armonia. Un universo tutto per noi, creato unicamente per trasportarci sulle ali dell’immaginazione. Tutto ciò è la magia della lettura.
Tra l’altro recenti studi condotti dalla Emory Univerity di Atlanta (Usa), hanno appurato che leggere un romanzo, oltre ad ampliare l’apertura mentale di una persona, fa bene anche al cervello. La ricerca, pubblicata sulla rivista Brain Connectivity ha dimostrato infatti che leggere ha un significativo impatto sulla mente e sul cervello, in particolare con una accresciuta connettività in due zone dell’encefalo, note come “solco centrale” e “corteccia temporale sinistra”. I ricercatori, per valutare quale fosse l’impatto della lettura sul nostro organo del pensiero, hanno preso in esame diciannove studenti universitari alle prese con il romanzo di Robert Harris dal titolo ‘Pompei’. I partecipanti all’esperimento, durante le giornate di lettura, sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale per immagini. I risultati degli esami hanno mostrato che la lettura di un romanzo provoca effetti duraturi nelle regioni del cervello responsabili del linguaggio e della ricettività e in quelle deputate alla creazione delle rappresentazioni sensoriali del corpo; si è osservato inoltre un’accresciuta connettività nella corteccia temporale sinistra, che è un’area del cervello legata alla ricettività del linguaggio. La lettura inoltre, sostengono i ricercatori, ha anche un impatto sulle esperienze vissute dal cervello: se per esempio incappiamo in parole come “caffè”, o “cioccolata”, o in immagini che ci richiamano il movimento, nel cervello si attivano immediatamente i neuroni associati al gusto e al movimento fisico: «Sapevamo già che le buone storie possono farci camminare con le scarpe di qualcun altro, in senso figurato – sostiene Berns, uno degli autori della ricerca – Ora stiamo vedendo che questo può anche accadere biologicamente». Il altre parole leggere non è solo uno straordinario viaggio nella galassia della fantasia e della creatività personale di ognuno di noi, ma ha la capacità di cambiarci dentro, a livello biologico, e di farci provare sensazioni reali, proprio come se i protagonisti del libro che leggiamo fossimo noi.
Ditemi voi se non è portentoso tutto ciò? Come può il cinema competere con tale meraviglia? Arrendetevi e uscite con le mani in alto…
Fonte: http://www.wired.com/wiredscience/2014/01/reading-a-novel-alters-brain-connectivity-so-what/
Guardare un film non è neanche lontanamente comparabile alla lettura di un libro: c’è poco da fare. Mentre nel primo caso siamo semplici osservatori, contenitori nei quali si riversa la ‘pappa pronta’, nel secondo siamo creatori di materia viva, registi noi stessi di un copione originale, unico, tutto a nostra disposizione. E davanti a noi non vi sono giganteschi schermi ultrapiatti e casse acustiche strombazzanti, ma praterie sterminate di colori, panorami, volti, lineamenti, sembianze pescate nel nostro recondito, nel nostro vissuto, a cui la nostra fantasia da razionalità e armonia. Un universo tutto per noi, creato unicamente per trasportarci sulle ali dell’immaginazione. Tutto ciò è la magia della lettura.
Tra l’altro recenti studi condotti dalla Emory Univerity di Atlanta (Usa), hanno appurato che leggere un romanzo, oltre ad ampliare l’apertura mentale di una persona, fa bene anche al cervello. La ricerca, pubblicata sulla rivista Brain Connectivity ha dimostrato infatti che leggere ha un significativo impatto sulla mente e sul cervello, in particolare con una accresciuta connettività in due zone dell’encefalo, note come “solco centrale” e “corteccia temporale sinistra”. I ricercatori, per valutare quale fosse l’impatto della lettura sul nostro organo del pensiero, hanno preso in esame diciannove studenti universitari alle prese con il romanzo di Robert Harris dal titolo ‘Pompei’. I partecipanti all’esperimento, durante le giornate di lettura, sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale per immagini. I risultati degli esami hanno mostrato che la lettura di un romanzo provoca effetti duraturi nelle regioni del cervello responsabili del linguaggio e della ricettività e in quelle deputate alla creazione delle rappresentazioni sensoriali del corpo; si è osservato inoltre un’accresciuta connettività nella corteccia temporale sinistra, che è un’area del cervello legata alla ricettività del linguaggio. La lettura inoltre, sostengono i ricercatori, ha anche un impatto sulle esperienze vissute dal cervello: se per esempio incappiamo in parole come “caffè”, o “cioccolata”, o in immagini che ci richiamano il movimento, nel cervello si attivano immediatamente i neuroni associati al gusto e al movimento fisico: «Sapevamo già che le buone storie possono farci camminare con le scarpe di qualcun altro, in senso figurato – sostiene Berns, uno degli autori della ricerca – Ora stiamo vedendo che questo può anche accadere biologicamente». Il altre parole leggere non è solo uno straordinario viaggio nella galassia della fantasia e della creatività personale di ognuno di noi, ma ha la capacità di cambiarci dentro, a livello biologico, e di farci provare sensazioni reali, proprio come se i protagonisti del libro che leggiamo fossimo noi.
Ditemi voi se non è portentoso tutto ciò? Come può il cinema competere con tale meraviglia? Arrendetevi e uscite con le mani in alto…
Fonte: http://www.wired.com/wiredscience/2014/01/reading-a-novel-alters-brain-connectivity-so-what/
lunedì 13 gennaio 2014
Ancora sulla letteratura di montagna
Pilone Centrale - Freney |
Aria sottile invece è stato scritto da un giornalista-alpinista, e narra di una vicenda finita altrettanto male, ovvero la scalata all’Everest del 1996. In questo caso, si tratta di un libro denuncia, cioè di un atto d’accusa contro le spedizioni commerciali e l’alpinismo divenuto hobby per danarosi in cerca di emozioni forti. Quella volta, pur di tener fede alle promesse pubblicitarie divulgate dalle società impegnate in questo genere di attività, un paio di guide professionistiche permisero ai loro clienti di attardarsi sulla via di salita ben oltre il consentito, fin quasi a buoi: il tutto nell’ottica del raggiungimento della vetta. Esito fatale anche in questa circostanza. Krakauer scrive in prima persona perché era lì in quei giorni. Egli infatti lavorava per una rivista che si occupava di outdoor e alta montagna, e gli venne offerta la possibilità di unirsi ad una di queste spedizioni commerciali. Per lui era un sogno che si avverava: la conquista della vetta del Mondo. E per poco non ci rimise le penne.
Freney 1961 invece racconta l’altrettanto tragica esperienza vissuta da Walter Bonatti e i suoi compagni di cordata, alla conquista dell’ultimo ‘grande enigma’ del Monte Bianco: il ‘Pilone Centrale’. Due cordate (una italiana e l’altra francese) si incontrano casualmente nell’ultimo bivacco prima di attaccare la scalata e decidono di unire le loro forze per dare l’assalto all’inviolato monolite di roccia rossa. Procedono con grande rapidità, ma a qualche decina di metri dalla vetta, una tempesta violentissima li sorprende in parete. Da qui comincia una serie di disperati tentativi per portare a casa la pelle. E non tutti ce la faranno, naturalmente.
Come si può notare, si tratta di tre volumi che raccontano di tre sciagure: d’altra parte si sa, per confezionare una storia di successo non si può prescindere da determinati ingredienti: sciagure, tragedie, suspense, colpi di scena, atti d’eroismo. Le storie belle e a lieto fine non fanno audience. Mi resi conto nitidamente di questo meccanismo un paio d’anni fa: di ritorno dal ‘Sentiero delle Orobie Orientali’, percorso con amici, decisi di scrivere un resoconto sulla brutta avventura capitataci durante la salita in cordata lungo un canalone assai impervio. Uno di noi cadde, e solo grazie alla prontezza di riflessi degli altri (muniti di apposite picozze) si evitò la tragedia. Ebbene questo scritto lo inviai alla rivista del Cai: venne pubblicato immediatamente, con tanto di foto. Sono sicurissimo che se avessi scritto di una gitarella senza grossi colpi di scena e soprattutto senza un qualche rischio mortale, nessuno se la sarebbe filata.
Ad ogni modo, la lettura dei tre libri di cui sopra è assolutamente consigliata: scorrono via veloci e in alcuni casi si fa fatica a staccarsene per spegnere l’a-batjour del comodino. Gli autori ci prendono per mano e ci portano lassù, sulle nevi perenni, ci fanno annusare l’aria rarefatta, ci trasmettono fotogrammi che parlano di vette siderali, cime favolose, sguardi che si inoltrano all’orizzonte, là dove s’intuisce la curvatura della Terra. È la magia della scrittura, capace di cambiarci dentro…! E non solo a livello intellettivo. Ma di questo ci occuperemo nella prossima puntata.
venerdì 10 gennaio 2014
Biblioteca della montagna
Per tutti gli appassionati della montagna e della letteratura di montagna, ecco un’occasione imperdibile:
Corriere della Sera e Club Alpino Italiano presentano la “Biblioteca della montagna”, una nuova iniziativa editoriale dedicata a tutti gli appassionati di alpinismo.
Da Bonatti a Messner, da Buhl a Kammerlander, i grandi alpinisti raccontano le loro imprese più estreme sulle vette del Pianeta. La forza e la bellezza della natura, la passione e il coraggio degli uomini che l’hanno sfidata in una selezione di 20 volumi.
Il primo volume in uscita sarà Montagne di una vita di Walter Bonatti.
Nel libro, il famoso alpinista scomparso nel 2011 ripercorre la storia delle imprese che hanno costellato i quindici anni della sua grande stagione alpinistica fino alla sofferta decisione di chiudere con il mondo della montagna, ma non con l’avventura, dedicandosi all’esplorazione dei luoghi più selvaggi della Terra.
I volumi successivi saranno in edicola ogni sabato, a partire dal 28 dicembre, a € 8,90 più il prezzo del quotidiano.
Ecco i primi dieci titoli:
28 dicembre: Walter Bonatti - Montagne di una vita
4 gennaio: Reinhold Messner - Parete Ovest
11 gennaio: Hans Kammerlander - Appeso a un filo di seta
18 gennaio: Silke Unterkircher - L’ultimo abbraccio della montagna
25 gennaio: Simone Moro - La voce del ghiaccio
01 febbraio: Hermann Buhl - È buio sul ghiacciaio
8 febbraio: Mauro Corona - Il volo della martora
15 febbraio: Emilio Comici - Alpinismo eroico
22 febbraio: Kurt Diemberger - K2 Il nodo infinito
01 marzo: Joe Simpson - La morte sospesa
Di questi libri ho letto il primo, quello di Bonatti, il terzo, ovvero quello di Kammerlander e il decimo, cioè La morte sospesa. Bonatti oltre ad essere un grandissimo alpinista, forse il più grande di tutti i tempi, era anche un ottimo scrittore. Il che è una vera rarità nel campo della letteratura di montagna. Spesso infatti, leggendo libri di questo genere, mi sono trovato a pensare: “Ma perché gli alpinisti non si affidano ad uno scrittore vero (o anche ad un giornalista esperto) per mettere nero su bianco le loro straordinarie avventure, invece di cimentarsi in un’arte a loro estranea”. Gli scritti di Bonatti sono coinvolgenti, pieni di suspense, sembra di essere lì con lui appeso ad una parete mentre scorrono veloci le pagine. La vicenda del K2 tuttavia ritorna un po’ troppo spesso nelle sue memorie, e il livore causato dal torto da lui subito in quel lontano ’56 prende sovente il posto della leggerezza che caratterizza generalmente la sua penna. Ma per il resto è un gran piacere leggere delle sue avventure al limite della fantascienza. Come quella volta che rimase appeso ad una parete per due ore, impossibilitato sia a scendere sia a salire. Fino a che, con un lampo di genio e di disperata temerarietà, lancia verso l’alto una corda con su dei nodi e affida la sua vita ad un’esile speranza di tenuta della presa. Fantastico. Libro consigliatissimo.
Appeso ad un filo di seta, di Kammerlander, l’ho letto qualche anno fa. E non mi ha entusiasmato. La fissa di voler scendere a tutti i costi dall’Everest con gli sci, come se si trattasse di una qualsiasi pista di discesa di Courmayeur, mi ha indispettito. La vetta del Mondo è un simbolo e non si può profanare con queste sciocchezze.
La morte sospesa, viceversa, pur non potendosi definire stilisticamente una meraviglia letteraria, narra di una storia veramente straordinaria. Due amici affrontano una vetta, la raggiungono, ma tornando indietro uno dei due si rompe una gamba…! E da qui tutta una serie di vicissitudini estremamente coinvolgenti. Come disse tempo fa Elettra, “la storia è talmente fica che se pure l’avesse scritta un analfabeta, sarebbe comunque affascinante”.
Confermo e sottoscrivo.
Fonte: http://www.cai.it/index.php?id=31&tx_ttnews%5Btt_news%5D=1902&cHash=a43b1bd119e798891a6b42e76e62d173
Ecco i primi dieci titoli:
28 dicembre: Walter Bonatti - Montagne di una vita
4 gennaio: Reinhold Messner - Parete Ovest
11 gennaio: Hans Kammerlander - Appeso a un filo di seta
18 gennaio: Silke Unterkircher - L’ultimo abbraccio della montagna
25 gennaio: Simone Moro - La voce del ghiaccio
01 febbraio: Hermann Buhl - È buio sul ghiacciaio
8 febbraio: Mauro Corona - Il volo della martora
15 febbraio: Emilio Comici - Alpinismo eroico
22 febbraio: Kurt Diemberger - K2 Il nodo infinito
01 marzo: Joe Simpson - La morte sospesa
Di questi libri ho letto il primo, quello di Bonatti, il terzo, ovvero quello di Kammerlander e il decimo, cioè La morte sospesa. Bonatti oltre ad essere un grandissimo alpinista, forse il più grande di tutti i tempi, era anche un ottimo scrittore. Il che è una vera rarità nel campo della letteratura di montagna. Spesso infatti, leggendo libri di questo genere, mi sono trovato a pensare: “Ma perché gli alpinisti non si affidano ad uno scrittore vero (o anche ad un giornalista esperto) per mettere nero su bianco le loro straordinarie avventure, invece di cimentarsi in un’arte a loro estranea”. Gli scritti di Bonatti sono coinvolgenti, pieni di suspense, sembra di essere lì con lui appeso ad una parete mentre scorrono veloci le pagine. La vicenda del K2 tuttavia ritorna un po’ troppo spesso nelle sue memorie, e il livore causato dal torto da lui subito in quel lontano ’56 prende sovente il posto della leggerezza che caratterizza generalmente la sua penna. Ma per il resto è un gran piacere leggere delle sue avventure al limite della fantascienza. Come quella volta che rimase appeso ad una parete per due ore, impossibilitato sia a scendere sia a salire. Fino a che, con un lampo di genio e di disperata temerarietà, lancia verso l’alto una corda con su dei nodi e affida la sua vita ad un’esile speranza di tenuta della presa. Fantastico. Libro consigliatissimo.
Appeso ad un filo di seta, di Kammerlander, l’ho letto qualche anno fa. E non mi ha entusiasmato. La fissa di voler scendere a tutti i costi dall’Everest con gli sci, come se si trattasse di una qualsiasi pista di discesa di Courmayeur, mi ha indispettito. La vetta del Mondo è un simbolo e non si può profanare con queste sciocchezze.
La morte sospesa, viceversa, pur non potendosi definire stilisticamente una meraviglia letteraria, narra di una storia veramente straordinaria. Due amici affrontano una vetta, la raggiungono, ma tornando indietro uno dei due si rompe una gamba…! E da qui tutta una serie di vicissitudini estremamente coinvolgenti. Come disse tempo fa Elettra, “la storia è talmente fica che se pure l’avesse scritta un analfabeta, sarebbe comunque affascinante”.
Confermo e sottoscrivo.
Fonte: http://www.cai.it/index.php?id=31&tx_ttnews%5Btt_news%5D=1902&cHash=a43b1bd119e798891a6b42e76e62d173
mercoledì 8 gennaio 2014
Sa ‘a bevemo…
Ciao amici, e ben ritrovati con l’anno nuovo. Passate bene le vacanze? A voi lettori uomini: vi siete ricordati il sei gennaio di fare gli auguri alle donne della vostra vita? Che poi non molti sanno che la tradizione della festa della Befana è antichissima: narra infatti la leggenda che i Re Magi (che non erano affatto tre; non si chiamavano Gaspare, Zuzzurro e Baldassarre; e il terzo non era nero…) durante il loro lungo viaggio alla ricerca del Bambin Gesù, si fermarono nei pressi di un villaggetto della Giudea. Erano affamati come orsi appena usciti dal letargo e pensarono bene di chiedere cibo e ospitalità in una di quelle dimore. Bussarono dunque con una certa insistenza ad un uscio a caso e gridarono: “Siamo i famosissimi Re Magi giunti or ora dalla terra dei Medi. Stiamo cercando il Bambin Gesù, ovvero colui che salverà il Mondo dal peccato; e detta così, en passant, non ci dispiacerebbe affatto dividere con voi il cibo succulento che sicuramente state gustando alla vostra tavola”. Dall’occhiello del portoncino una vecchia orrenda, di una cattiveria potenzialmente clamorosa, osservò attentamente quegli strani beduini sui cammelli, e senza perdere un attimo di tempo corse verso il ripostiglio. Un attimo dopo, spalancato l’uscio, ne sortì con una monumentale scopa di saggina, pronta a menare fendenti furibondi: “Sparite mascalzoni farabutti…! E non fatevi più vedere da queste parti…!”
Gli intrepidi e coraggiosissimi Re Magi, abituati a ben altro trattamento nel corso della loro lunga e gloriosa carriera di ‘consegnatori’ professionisti di regali, cominciarono a urlare dal terrore e, frustando i cammelli come ciuchi, fuggirono verso le colline.
Non trascorse molto tempo che la vecchia iniziò a riflettere sulle parole udite dagli stranieri. E se fosse stata la pura verità? Se davvero quegli strampalati figuri fossero alla ricerca del Bambino destinato a salvare il Mondo? Poteva lei restarsene chiusa nella sua spelonca, mentre il mondo assisteva all’Epifania (Epifàneia - Bifanià - Befanìa) del Signore. E così, ravvedutasi definitivamente, riempì la sua bisaccia di dolcetti e partì alla ricerca dei Re Magi. E non trovandoli nel corso dei giorni, prese a fermasi lungo il cammino, donando ai bambini che incontrava i dolciumi che aveva con se. Nella segreta speranza che uno di questi fosse il Bambin Gesù. E da quel dì, non ha mai smesso di girare il Mondo, a cavallo della sua portentosa scopa, per fare regali e farsi perdonare per quel suo gesto di estrema scortesia…!
Ecco, ma a parte tutto questo, che avete fatto a Capodanno? Sciate, ciaspolate, visite a città d’arte varie? Una parte del Listone se n’è andato, come ampiamente anticipato su queste pagine, in Umbria. Base fissa presso l’ostello di Perugia ed escursioni giornaliere nei dintorni: Assisi (con la lunga salita all’Eremo delle Carceri per alcuni; per altri passeggiatina di piacere fino a Spello); Spoleto; Foligno; Gubbio. Dopo un cenone che resterà nella storia (a vostra libera interpretazione…), e nella notte incantata che segna il passaggio tra il 2013 e il 2014 i “magnifici sette” - che siamo noi medesimi di persona - erano nel punto più magico della bella Perugia: le scale mobili di Piazzale Cupa. In salita, ci tengo a precisarlo: buon presagio a detta di qualcuno…! Un attimo dopo tuttavia, eravamo in mezzo alla folla, per brindare all’anno nuovo: peccato che metà del contenuto della boccia che avevo tra le mani sia finita sulle spalle e sulle teste dei malcapitati presenti (anche estranei…). Senza peraltro grosse conseguenze…! Ma a Dio piacendo, tutto ciò sarà materia di altro racconto…
Sa ‘a bevemo…
Ecco, ma a parte tutto questo, che avete fatto a Capodanno? Sciate, ciaspolate, visite a città d’arte varie? Una parte del Listone se n’è andato, come ampiamente anticipato su queste pagine, in Umbria. Base fissa presso l’ostello di Perugia ed escursioni giornaliere nei dintorni: Assisi (con la lunga salita all’Eremo delle Carceri per alcuni; per altri passeggiatina di piacere fino a Spello); Spoleto; Foligno; Gubbio. Dopo un cenone che resterà nella storia (a vostra libera interpretazione…), e nella notte incantata che segna il passaggio tra il 2013 e il 2014 i “magnifici sette” - che siamo noi medesimi di persona - erano nel punto più magico della bella Perugia: le scale mobili di Piazzale Cupa. In salita, ci tengo a precisarlo: buon presagio a detta di qualcuno…! Un attimo dopo tuttavia, eravamo in mezzo alla folla, per brindare all’anno nuovo: peccato che metà del contenuto della boccia che avevo tra le mani sia finita sulle spalle e sulle teste dei malcapitati presenti (anche estranei…). Senza peraltro grosse conseguenze…! Ma a Dio piacendo, tutto ciò sarà materia di altro racconto…
Sa ‘a bevemo…
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