La cronaca degli ultimi giorni ci ha riservato davvero uno spettacolo poco edificante al livello politico, e i nostri stanchi sguardi hanno dovuto sorbirsi scene che, se non fossero tragiche per via della situazione economica e sociale in cui versa il nostro paese, sarebbero tutte da ridere. Dal “noi non andremo mai al Governo senza elezioni” al famoso “Enrico stai sereno”… è tutta un’enorme bruttura che obbliga a distogliere l’attenzione da ciò che capita ai piani alti. Per la serie “Gli ultimi giorni di Pompei”…! Eppure l’Italia è una grande nazione, ed è caratteristica delle grandi nazioni tirar fuori proprio nel momento più buio della propria storia una fiaccola che rischiari la notte. D’altra parte si sa, siamo pur sempre un popolo con una storia e una cultura millenaria alle spalle, e la bellezza (che come affermava Dostoevskij “salverà il mondo”) è ben radicata nel nostro DNA. E questa che vi stiamo per raccontare è per l’appunto una storia di cultura…! Qualche giorno fa, nella città di Bari, si è tenuta una mostra d’arte contemporanea dal titolo ‘Display Mediating Landscape’. Ecco come descrive l’evento uno dei curatori della mostra: «La dimensione della partecipazione e dello scambio fa da sfondo teorico all’intera iniziativa: che s’interroga sui cambiamenti nelle modalità di esposizione, in parallelo ai cambiamenti dei modi di comunicare e fare arte di una generazione “post-digitale”. Di qui la progettazione del grande display che attraversa la Sala, ridefinendone lo spazio: una struttura in legno multipla […] che accoglie i diversi contributi in modo non gerarchico. Superando cioè una logica autoriale, il tradizionale allestimento con basi o pareti che mettono in rilievo, isolandola, ogni singola opera. E creando invece un “paesaggio” unitario, un’unica grande installazione corale articolata in superfici dinamiche e microspazi da occupare, che mette le opere diversamente in relazione tra loro e con l’espositore, il pubblico, l’ambiente intorno…».
Non so voi, ma io di fronte a tali parole mi sento un po’ come Alberto Sordi in visita alla ‘Biennale di Venezia’ (Vacanze intelligenti, 1978). Ma andiamo oltre. La mostra comincia, il pubblico c’è, gli organizzatori sono soddisfatti. Termina la giornata e chiudono i battenti. Ed è a questo punto che interviene la protagonista di questa vicenda. Lei si chiama Anna Macchi ed è un’addetta alle pulizie. I suoi datori di lavoro la descrivono come una lavoratrice onesta e meticolosa. Anna, il mattino successivo, entra nella sala dove troneggia la “struttura in legno multipla”, e si accorge con orrore che c’è bisogno del suo pronto e risoluto intervento: «Sono andata ad aprire e ho visto questo casino…! Cartoni a terra, bottiglie di birra sopra i cartoni… insomma, stava il bordello. Allora io ho preso tutti i cartoni e li ho messi fuori dal cancello con la busta dell’immondizia. Poi è passato il camion dell’immondizia e ho chiesto: “Per favore, me li prendete che non ce la faccio, sono cartoni grandi…” […]. Poi sono andata per pulire e ho visto caffè a terra buttati, biscotti, birre a terra buttate…! Che dovevo fare, lasciare a terra sporco? E così l’ho pulito: non sono una persona che lascia sporco e me ne vado».
Come si è appreso successivamente dalle divertite cronache locali, in realtà quei cartoni stracciati e quel “bordello”, erano delle opere d’arte, o meglio, come si usa dire di questi tempi, delle “installazioni” realizzate con carta di giornale, cartoni e biscotti (sbriciolati). Valore stimato? Tra i 10 e i 12mila euro.
Il giornalista de La Repubblica - Bari, autore dell’intervista chiede ancora ad Anna: «Come ti senti ora? Triste, pentita?» E lei: «Triste sì, ma pentita no: non ho fatto niente di male. Sono loro che devono capire: io, una donna delle pulizie, devo trovare il casino che fanno loro […], dovevano avvisare…, no che lasciano tutto in mezzo… e poi la stronza sono io che deve andare a pulire…!».
L’episodio peraltro fa il paio con ciò che è accaduto una decina di giorni fa al Museo d’arte di Ravenna, dove un operaio ha stuccato per errore un foro dipinto dallo street artist riminese Eron. Anche in questo caso si trattava di un’opera d’arte, ovviamente: uno specchio, adagiato sul pavimento come se fosse caduto, e un buco da chiodo nella parete. Il sagace e coscenzioso operaio, di fronte a quest’altro “bordello”, come dice giustamente Anna, si è armato di stucco e spatola, e via una bella otturazione…!
Dio mio cosa avrei dato per essere presente al momento del rinvenimento del misfatto…! Artisti e organizzatori, che così, all’improvviso, si accorgono che queste meravigliose opere d’arte si sono volatilizzate…! Sono sicuro che non ce l’avrei fatta a restare serio…!
La faccenda in effetti è talmente ridicola che non la si riesce ad affrontare con il dovuto spirito critico: uhè ragazzi…, qui siamo di fronte alla perdita di inestimabili capolavori…!
Ecco, a parte l’ironia, io rimango sempre più perplesso di fronte alle nuove forme che assume l’arte dei nostri tempi: non le capisco, non le apprezzo ed anzi, per dirla tutta, mi disgustano profondamente. Dicono gli esperti che l’arte contemporanea interpreta e interagisce con l’ambiente circostante: ed in effetti, tanta e tale è stata l’interazione, che la povera Anna ha scambiato quelle meravigliose opere d’arte per del pattume lasciato in giro alla rinfusa. Da questo punto di vista, l’obiettivo è stato pienamente centrato.
Lo confesso: di fronte a cotanta perdita per l’Umanità, al cospetto della distruzione di questa grandiosa arte contemporanea, sono scoppiato a ridere ed ho provato una grande gioia…! Finalmente qualcuno che ha reso fisicamente ciò che penso di questo genere di arte. Grazie Anna.
P.S. Ma se invece di tanti esimi esperti…, al Ministero della Cultura ci mettessimo Anna?
Fonte: http://video.repubblica.it/edizione/bari/butta-le-opere-scambiate-per-rifiuti-pentita-no-ho-fatto-il-mio-lavoro/156618/155110
Guarda anche: https://www.youtube.com/watch?v=OfsJAgaY62E
Prova
“Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)
Pagine
lunedì 24 febbraio 2014
mercoledì 19 febbraio 2014
Oddio... no: arriva Carnevale
L’altra sera ero in chat con una ragazza conosciuta in Croce Rossa. Si tratta di una studentessa poco più che ventenne, molto carina e facile al sorriso: il vero e unico sogno erotico di tutto il comitato locale e non solo. Ad un tratto, tra una cosa e l’altra, le ho chiesto se anche lei come me era di turno la notte di lunedì. Mi ha risposto di no, dal momento che era impegnata per una festa in maschera in occasione del Carnevale. Alla parola Carnevale mi è salita dalle zone pelviche come una fiammata di orticaria improvvisa. Ditemi quello che volete, ma questa festa non la reggo proprio: sono anni ormai. E temo anche di saperne il motivo: il piacere che si prova verso questa ricorrenza è inversamente proporzionale all’età dell’individuo: più si è vecchi, più la si odia. Questo non esclude che ci siano anche dei vecchi rincoglioniti che amano le mascherate (e le pagliacciate), ma in generale la teoria ha fondamento oserei dire scientifico. Infatti, dicono gli studiosi, uno dei principali campanelli d’allarme che denotano l’invecchiamento (soprattutto mentale….) della persona sta proprio nell’incapacità di reggere il chiasso, il frastuono, la sguaiataggine, la confusione fine a se stessa. A dire il vero tuttavia, non mi pare di avere mai amato alla follia queste forme di esuberanza, in nessuna epoca della mia vita. E di fatti, da piccolo mi si affibbiava spesso l’epiteto di ‘saggio’: una delle più grosse ingiurie che si possano rivolgere ad un bambino…!
(Poi per fortuna... un po’ alla Benjamin Button..., sono guarito...!).
A Crema questa ricorrenza è molto sentita, tanto che anche le scuole restano chiuse per diversi giorni. Insieme al Carnevale di Viareggio e a quello di Busseto, quello cremasco è uno dei più rinomati di tutto il Nord Italia, e dura quasi un mese. D’altra parte, come molti sanno, dal lontano 1449 Crema fu sottoposta all’autorità veneziana che qui introdusse i propri usi e costumi e, da allora, è rimasta nella tradizione locale questa festa goliardica. Il week-end prima della Quaresima vengono chiuse le strade del centro e per tutto il pomeriggio si susseguono infinite sfilate di carri allegorici, allestiti nei laboratori artigianali del circondario: c’è una vera e propria economia che gira intorno a questo business. Ci sono le solite maschere tragiche e farsesche, vengono sbertucciati i politici più in voga del momento, ci si spara in faccia manciate di coriandoli, e poi colpi di clava di plastica con trombetta incorporata, schiaffi del soldato e pedate con rincorsa sulle natiche. Il tutto in un clima di cordiale e goliardica allegria. Questo avvenimento attrae sempre una moltitudine di spettatori e turisti non solo dalla Lombardia, ma anche da tutta la Pianura Padana. Qualcuno sostiene che l’altr’anno, confusi tra la folla, c’erano anche alcuni calabresi in incognito, ma questa è solo un’illazione non confermata.
Fatto sta che quando questa ragazza mi ha scritto che per Carnevale si sarebbe vestita da coniglietta, con tanto di orecchie finte, mi è tornata alla mente la mia infanzia. Anche a Sesto San Giovanni, come in ogni dove d’Italia, c’era l’usanza di vestire, soprattutto i bambini. Le mie prime esperienze in fatto di travestimenti risalgono all’età delle scuole elementari. Quando avevo sei o sette anni, durante i rigidi inverni padani, andavo sempre incontro a delle brutte tonsilliti con febbri alte e spesso ero costretto a passare lunghi periodi di convalescenza a casa. Un anno saltai completamente la festa e quando ormai ero sulla via della guarigione, si era già in pieno periodo quaresimale. Mia madre, per non farmi sentire da meno degli altri bimbi - per giorni avevo invidiato con feroce rancore gli amichetti che sfilavano gioiosi sotto le finestre di casa - decise di abbigliarmi ugualmente con un tragico vestitino da Zorro. A lungo attraversammo le piazze e le stradine assolate del centro, confondendoci tra gli sguardi stupiti della gente. Ad un tratto, mentre ero tutto intento a sciabolare violentemente un cespuglio con la mia bella spaduccia di plastica, ci venne incontro una donna anziana con un foulard nero sulla testa, bigotta all’inverosimile e colma di un livore malamente celato: «Ma signora… siamo in Quaresima… non si può più festeggiare il Carnevale: è sacrilegio. Vada subito a cambiare il bambino finché è in tempo…!». Sentite quelle parole presi a sciabolare anche lei.
L’anno successivo, questa volta assistito dalla buona sorte, riuscii a festeggiare nei tempi e nelle modalità corrette. A scuola si tenne lezione in maschera e per l’occasione sfoggiai un nuovissimo completino da Robin Hood, con tanto di arco, faretra e penna sul berretto a punta. L’unica cosa che non gradivo di quel travestimento era la tremenda calzamaglia rosa carne che mi faceva vergognare come un ladro scoperto da un vigilante all’uscita di un centro commerciale affollato. Avevo sempre l’impressione che tutti mi fissassero la zona inguinale, e per questo me ne andavo per la scuola con entrambe le mani poste a protezione: ero a metà tra un maniaco sessuale e un calciatore in barriera in attesa della punizione di Balotelli.
Gli anni a seguire, quelli delle medie, furono caratterizzati da tutt’altro spirito. Abbandonati gli innocenti e delicati divertimenti da bambini, ci si dedicò alle sfide tra bande a colpi di schiuma da barba, farina e uova marce. Il sabato pomeriggio - a Sesto c’era il rito ambrosiano - ci si trovava nei pressi dell’oratorio e si scatenavano battaglie invereconde, con tanto di inseguimenti, agguati e raid punitivi ai danni degli avversari. I più perfidi usavano anche le temutissime schiume depilanti che, da bugiardino, promettevano la caduta istantanea di tutti i capelli. Era una guerra spietata che non ammetteva prigionieri.
Quando giunsero gli anni del liceo il Carnevale andò in disuso. Era una delle festività più snobbate dell’anno. Una volta però un’amica invitò tutta la compagnia ad una festa in maschera: a sentir lei ci sarebbe stato da divertirsi all’inverosimile. Per lunghi giorni ci consultammo sul da farsi, poi all’improvviso giunse una notizia clamorosa: alla festa avrebbe partecipato anche Carolina, la ragazza più bella di tutto il comprensorio Parco Nord. Ne eravamo tutti innamorati, chi più chi meno segretamente, ed avremmo dato volentieri la palla destra per uscire con lei. Ricordo che il solo guardarla da lontano ci provocava deliqui malsani e violentissime tachicardie. Carolina non salutava quasi mai nessuno, non tanto perché fosse algida ed altezzosa, quanto perché nessuno di noi osava nemmeno avvicinarsi a lei. Per ironia della sorte quella sua stratosferica bellezza la relegava in una singolare solitudine, spezzata solo dalla vicinanza di alcune amiche, per lo più bruttine e antipatiche. Una mattina, mentre ero in corridoio nei pressi del bar dell’istituto, Carolina si avvicinò a me in spaventevole rotta di collisione. Ebbi un immediato tremore alle gambe ed un principio di arresto cardiaco. Mi si fermò davanti e, con un sorriso che aveva del miracoloso, mi domandò con voce d’angelo: «Hai da accendere, per favore». Io ero un fumatore da competizione fin dalla più tenera età e a quell’inattesa domanda risposi prontamente: «Certamente, per te questo ed altro» e cominciai a frugarmi nervosamente nelle tasche alla ricerca del mio sontuoso zippo a quattro tacche: quello con la fiamma più alta. Ispezionai ogni pertugio ripetutamente, compreso il cavo inguinale senza badare al pudore. Divenni rosso porpora cardinalizio e cominciai a sudare abbondantemente. Niente di niente: la triste realtà era che avevo tragicamente lasciato le sigarette nel giubbotto appeso in classe. Carolina attese ancora un attimo, poi accennò appena una smorfia di delusione e se ne andò dicendo: «Ok, non importa…!». Mi stramaledissi per quasi una settimana infliggendomi spontaneamente penitenze e tormenti corporali, non troppo atroci.
E così, dopo lunghe discussioni, decidemmo tutti di partecipare a quella festa. Immediatamente si propose la drammatica scelta del travestimento. Molti optarono per il classico dei classici, vale a dire il travestimento da donna: si ricorse ad osceni parrucconi biondo platino, gonne svolazzanti e volgarissimi strati di belletto e maquillage. Alcuni pensarono bene di munirsi anche di aggraziate borsette plissettate, rubate a vecchie zie, e di rotearle di tanto in tanto con l’eleganza tipica di una entreneuse del Giambellino. Quando poi da lontano vedemmo avvicinarsi Celestino - che aveva fama di essere un portentoso menagramo - , vestito da Conte Dracula, ci toccammo prudentemente e con nonchalance entrambi i testicoli. Io a lungo fui indeciso. Infine, quasi per disperazione, diedi retta a mia madre e mi convinsi ad indossare la divisa completa da ferroviere di mio padre, compreso berretto, borsello e fischietto. Per dare un minimo di ilarità alla cosa mi disegnai un paio di osceni baffi posticci con la matita degli occhi. Quando gli amici mi videro arrivare non cercarono nemmeno lontanamente di ridere. Alla festa fui osservato per tutto il tempo con molta diffidenza: praticamente ero a tutti gli effetti un ferroviere in servizio ad una festa in maschera. Per cercare di addrizzare quella maledetta faccenda, cominciai ad andare in giro per il salone con una macchinetta leva-punti ripetendo ad alta voce: «Biglietti… biglietti prego… biglietti…». Per poco non fui buttato fuori a calci. Quel branco di iene non aveva mai pagato nemmeno il biglietto della pesca di beneficienza.
A Crema questa ricorrenza è molto sentita, tanto che anche le scuole restano chiuse per diversi giorni. Insieme al Carnevale di Viareggio e a quello di Busseto, quello cremasco è uno dei più rinomati di tutto il Nord Italia, e dura quasi un mese. D’altra parte, come molti sanno, dal lontano 1449 Crema fu sottoposta all’autorità veneziana che qui introdusse i propri usi e costumi e, da allora, è rimasta nella tradizione locale questa festa goliardica. Il week-end prima della Quaresima vengono chiuse le strade del centro e per tutto il pomeriggio si susseguono infinite sfilate di carri allegorici, allestiti nei laboratori artigianali del circondario: c’è una vera e propria economia che gira intorno a questo business. Ci sono le solite maschere tragiche e farsesche, vengono sbertucciati i politici più in voga del momento, ci si spara in faccia manciate di coriandoli, e poi colpi di clava di plastica con trombetta incorporata, schiaffi del soldato e pedate con rincorsa sulle natiche. Il tutto in un clima di cordiale e goliardica allegria. Questo avvenimento attrae sempre una moltitudine di spettatori e turisti non solo dalla Lombardia, ma anche da tutta la Pianura Padana. Qualcuno sostiene che l’altr’anno, confusi tra la folla, c’erano anche alcuni calabresi in incognito, ma questa è solo un’illazione non confermata.
Fatto sta che quando questa ragazza mi ha scritto che per Carnevale si sarebbe vestita da coniglietta, con tanto di orecchie finte, mi è tornata alla mente la mia infanzia. Anche a Sesto San Giovanni, come in ogni dove d’Italia, c’era l’usanza di vestire, soprattutto i bambini. Le mie prime esperienze in fatto di travestimenti risalgono all’età delle scuole elementari. Quando avevo sei o sette anni, durante i rigidi inverni padani, andavo sempre incontro a delle brutte tonsilliti con febbri alte e spesso ero costretto a passare lunghi periodi di convalescenza a casa. Un anno saltai completamente la festa e quando ormai ero sulla via della guarigione, si era già in pieno periodo quaresimale. Mia madre, per non farmi sentire da meno degli altri bimbi - per giorni avevo invidiato con feroce rancore gli amichetti che sfilavano gioiosi sotto le finestre di casa - decise di abbigliarmi ugualmente con un tragico vestitino da Zorro. A lungo attraversammo le piazze e le stradine assolate del centro, confondendoci tra gli sguardi stupiti della gente. Ad un tratto, mentre ero tutto intento a sciabolare violentemente un cespuglio con la mia bella spaduccia di plastica, ci venne incontro una donna anziana con un foulard nero sulla testa, bigotta all’inverosimile e colma di un livore malamente celato: «Ma signora… siamo in Quaresima… non si può più festeggiare il Carnevale: è sacrilegio. Vada subito a cambiare il bambino finché è in tempo…!». Sentite quelle parole presi a sciabolare anche lei.
L’anno successivo, questa volta assistito dalla buona sorte, riuscii a festeggiare nei tempi e nelle modalità corrette. A scuola si tenne lezione in maschera e per l’occasione sfoggiai un nuovissimo completino da Robin Hood, con tanto di arco, faretra e penna sul berretto a punta. L’unica cosa che non gradivo di quel travestimento era la tremenda calzamaglia rosa carne che mi faceva vergognare come un ladro scoperto da un vigilante all’uscita di un centro commerciale affollato. Avevo sempre l’impressione che tutti mi fissassero la zona inguinale, e per questo me ne andavo per la scuola con entrambe le mani poste a protezione: ero a metà tra un maniaco sessuale e un calciatore in barriera in attesa della punizione di Balotelli.
Gli anni a seguire, quelli delle medie, furono caratterizzati da tutt’altro spirito. Abbandonati gli innocenti e delicati divertimenti da bambini, ci si dedicò alle sfide tra bande a colpi di schiuma da barba, farina e uova marce. Il sabato pomeriggio - a Sesto c’era il rito ambrosiano - ci si trovava nei pressi dell’oratorio e si scatenavano battaglie invereconde, con tanto di inseguimenti, agguati e raid punitivi ai danni degli avversari. I più perfidi usavano anche le temutissime schiume depilanti che, da bugiardino, promettevano la caduta istantanea di tutti i capelli. Era una guerra spietata che non ammetteva prigionieri.
Quando giunsero gli anni del liceo il Carnevale andò in disuso. Era una delle festività più snobbate dell’anno. Una volta però un’amica invitò tutta la compagnia ad una festa in maschera: a sentir lei ci sarebbe stato da divertirsi all’inverosimile. Per lunghi giorni ci consultammo sul da farsi, poi all’improvviso giunse una notizia clamorosa: alla festa avrebbe partecipato anche Carolina, la ragazza più bella di tutto il comprensorio Parco Nord. Ne eravamo tutti innamorati, chi più chi meno segretamente, ed avremmo dato volentieri la palla destra per uscire con lei. Ricordo che il solo guardarla da lontano ci provocava deliqui malsani e violentissime tachicardie. Carolina non salutava quasi mai nessuno, non tanto perché fosse algida ed altezzosa, quanto perché nessuno di noi osava nemmeno avvicinarsi a lei. Per ironia della sorte quella sua stratosferica bellezza la relegava in una singolare solitudine, spezzata solo dalla vicinanza di alcune amiche, per lo più bruttine e antipatiche. Una mattina, mentre ero in corridoio nei pressi del bar dell’istituto, Carolina si avvicinò a me in spaventevole rotta di collisione. Ebbi un immediato tremore alle gambe ed un principio di arresto cardiaco. Mi si fermò davanti e, con un sorriso che aveva del miracoloso, mi domandò con voce d’angelo: «Hai da accendere, per favore». Io ero un fumatore da competizione fin dalla più tenera età e a quell’inattesa domanda risposi prontamente: «Certamente, per te questo ed altro» e cominciai a frugarmi nervosamente nelle tasche alla ricerca del mio sontuoso zippo a quattro tacche: quello con la fiamma più alta. Ispezionai ogni pertugio ripetutamente, compreso il cavo inguinale senza badare al pudore. Divenni rosso porpora cardinalizio e cominciai a sudare abbondantemente. Niente di niente: la triste realtà era che avevo tragicamente lasciato le sigarette nel giubbotto appeso in classe. Carolina attese ancora un attimo, poi accennò appena una smorfia di delusione e se ne andò dicendo: «Ok, non importa…!». Mi stramaledissi per quasi una settimana infliggendomi spontaneamente penitenze e tormenti corporali, non troppo atroci.
E così, dopo lunghe discussioni, decidemmo tutti di partecipare a quella festa. Immediatamente si propose la drammatica scelta del travestimento. Molti optarono per il classico dei classici, vale a dire il travestimento da donna: si ricorse ad osceni parrucconi biondo platino, gonne svolazzanti e volgarissimi strati di belletto e maquillage. Alcuni pensarono bene di munirsi anche di aggraziate borsette plissettate, rubate a vecchie zie, e di rotearle di tanto in tanto con l’eleganza tipica di una entreneuse del Giambellino. Quando poi da lontano vedemmo avvicinarsi Celestino - che aveva fama di essere un portentoso menagramo - , vestito da Conte Dracula, ci toccammo prudentemente e con nonchalance entrambi i testicoli. Io a lungo fui indeciso. Infine, quasi per disperazione, diedi retta a mia madre e mi convinsi ad indossare la divisa completa da ferroviere di mio padre, compreso berretto, borsello e fischietto. Per dare un minimo di ilarità alla cosa mi disegnai un paio di osceni baffi posticci con la matita degli occhi. Quando gli amici mi videro arrivare non cercarono nemmeno lontanamente di ridere. Alla festa fui osservato per tutto il tempo con molta diffidenza: praticamente ero a tutti gli effetti un ferroviere in servizio ad una festa in maschera. Per cercare di addrizzare quella maledetta faccenda, cominciai ad andare in giro per il salone con una macchinetta leva-punti ripetendo ad alta voce: «Biglietti… biglietti prego… biglietti…». Per poco non fui buttato fuori a calci. Quel branco di iene non aveva mai pagato nemmeno il biglietto della pesca di beneficienza.
venerdì 14 febbraio 2014
In memoria di Marco
Il 14 febbraio 2004, dieci anni fa, in un hotel di Rimini veniva trovato il corpo senza vita di Marco Pantani. Dagli esami clinici si scoprì che la morte era stata causata da un’edema polmonare e cerebrale, conseguente ad un’overdose di cocaina. 34 anni e un mese, la vita di un uomo che ha cambiato per sempre la storia del ciclismo.
La notizia giunse come il classico fulmine a ciel sereno, e quella morte solitaria e disperata lasciò sgomenti tutti, non solo gli appassionati delle due ruote. Pantani era stato un idolo in vita, al vertice della notorietà e della stima, e in quel fantastico 1998 divenne il ciclista più amato dell’epoca moderna, vincendo nello stesso anno Giro e Tour. Un’impresa riuscita a pochissimi. Questa vicenda mi fa pensare al mio avvicinamento al ciclismo. In fondo ci si avvicina ad uno sport soprattutto perché ci facciamo travolgere dal mito del campione, dell’eroe osannato, faro dell’Umanità. Siamo alla fine degli anni 90’ e il mio collega – e amico – Marco, che in gioventù era stato un discreto sprinter, aveva coinvolto me ed altri in questo sport. Alcuni acquistarono una bicicletta nuova, altri riattarono quella di un qualche parente, e via sui pedali. Le nostre erano uscite per lo più domenicali su per i colle brianzoli. Uscite da pensionati verrebbe da dire. Verrebbe da dire per chi non conosce i pensionati che vanno a correre sulle due ruote. Ci volle poco infatti per capire che quella categoria di veterani andava trattata con molto, ma molto rispetto. Un giorno partii spocchioso e baldanzoso, confidando nella freschezza della mia gioventù, ma già al quindicesimo chilometro stramaledivo me, la bicicletta e tutti quei dannati vegliardi che filavano via sul filo dei quaranta all’ora. Giunsi a casa strisciando su gomiti e ginocchia, sfiancato. Per settimane lasciai la bicicletta appesa al chiodo, meditando di darmi al curling (nel ruolo del portatore di scopetta mi ci vedevo benissimo). Poi col tempo ripresi a correre. Quando a maggio giungeva il Giro d’Italia dalle nostre parti, si decideva di andare a seguire una tappa. Di solito la più impegnativa. E così in quel lontano 1999 Marco ed io optammo per la tappa del Mortirolo. Il campionissimo del momento era Marco Pantani. Qualche mese prima avevo avuto il privilegio di conoscerlo personalmente, presso la fiera di Milano, in occasione dell’Eicma, il “salone della bicicletta”. Egli veniva dai trionfi dell’anno prima, dalle vittorie al Giro e al Tour. Era all’apice della carriera, osannato e venerato come un semidio. La società per la quale lavoravo si occupava anche di sicurezza e così quel giorno venne organizzato un servizio di scorta per lui. Avrebbe visitato alcuni stand della fiera, tenuto una conferenza, stretto mani, firmato autografi, ma in quella calca di visitatori-tifosi era necessario un minimo di servizio d’ordine. L’entusiasmo che ci accompagnò per tutta la sua permanenza in fiera fu incredibile, la confusione totale. Durammo fatica a contenere tutta quella massa di persone che spingevano per toccare Pantani, per stringergli la mano, per farsi fotografare insieme a lui. Egli si aggirava spaesato, lo sguardo come assente, distaccato. Non c’erano lampi di gioia nei suoi occhi, né di afflizione o tristezza. Sembrava che la sua mente fosse altrove, lontana. Le ultime parole che pronunciò dal palco della Gazzetta dello Sport furono quelle di risposta alla domanda del giornalista che gli chiedeva quale vittoria di tappa avrebbe desiderato per il prossimo Giro. Ed egli rispose: «Il Mortirolo». Un boato di tifosi accompagnò la sua uscita dal padiglione.
E così in quel maggio del ‘99 Marco ed io salimmo in mattinata verso la vetta di quel passo, transitando da Tirano e poi su da Mazzo di Valtellina. La corsa sarebbe passata nel primo pomeriggio e noi lì avremmo atteso i ciclisti. Fu una delle fatiche più immani della mia vita. Le pendenze erano talmente impegnative e costanti che lasciavano totalmente senza fiato. Giunti a metà salita, vale a dire intorno al sesto chilometro ci fermammo. Era il punto più infame di quella lunga e strettissima striscia d’asfalto che puntava verso il cielo, e qui i ciclisti avrebbero dovuto dare il meglio di loro stessi per prevalere sugli avversari. Ci accampammo a bordo strada e cominciammo a pregustarci lo spettacolo che sicuramente Pantani avrebbe offerto senza risparmiarsi. Intorno a mezzogiorno ci sintonizzammo su Radio-Corsa e solo allora scoprimmo che Pantani era stato fermato alla partenza per ematocrito fuori limite massimo. Fu una delusione che lasciò sgomenti, affranti e senza parole. E così perso il campione ci restarono Gotti, Heras e alcuni altri comprimari e portaborracce. I corridori furono preceduti dalle moto apripista e in brevissimo tempo furono da noi. I primi salivano come se non facessero fatica, solo una smorfia appena accennata di sofferenza e una sudorazione preoccupante facevano intuire l’enorme sforzo a cui si sottoponevano. Gli ultimi invece, opportunamente lontani dalle telecamere, non solo non rifiutavano le spinte dei tifosi, ma anzi le incoraggiavano. Il mio amico Marco, a rischio di un infarto, ne accompagnò una mezza dozzina spingendoli per venti-trenta metri. Per me invece c’era ancora la delusione, uno sconforto amarissimo che mi inchiodava sul mio pezzettino d’asfalto.
Senza più il mio idolo mi allontanai col tempo dal ciclismo: è il destino che tocca a tutti coloro che amano troppo intensamente. Le corse ciclistiche senza Pantani non furono più le stesse: là dove un tempo c’era la certezza che prima o poi sarebbe accaduto il classico coup de théâtre a cui ci aveva abituato tante volte, ovvero il gesto atletico che lascia senza fiato e riempie di entusiasmo e commozione, ora c’era una cupa monotonia, giocata da corridori sparagnini, timorosi e calcolatori. Cioè corse che si accendevano – per modo di dire – solo negli ultimi 2-3 chilometri: così, tanto per fare un po’ di scena per il pubblico, senza tuttavia farsi troppo male. No, non faceva più per me quel genere di spettacolo.
Io non so con certezza se Pantani facesse o meno uso di droghe: un’analisi particolare del midollo osseo, eseguita dopo la sua morte, ha escluso un uso frequente e in quantità elevata di Epo durante la sua carriera. Può essere che in determinate circostanze, in momenti particolarmente bui della sua carriera, abbia ceduto alla tentazione. Questo non lo escludo. E pur tuttavia, considerato tutto ciò che è emerso nel corso degli anni, vale a dire la scoperta continua e sistematica di episodi analoghi legati a campioni e vincitori delle più prestigiose gare, viene da pensare davvero che il doping sia purtroppo una pratica largamente diffusa. E che di conseguenza, per emergere tra i migliori, sia quasi obbligatorio doparsi. Questa è il sospetto più che legittimo.
Qualche mese dopo la morte di Marco, andai a Cesenatico, a fargli visita. Al cimitero c’era ancora una sistemazione provvisoria, un loculo anonimo tra i tanti. Guardare la sua fotografia, là dentro a quella cornicetta dorata, mi dava una strana sensazione: come di incredulità. Non mi sembrava possibile che fosse vero che Pantani fosse morto. Eppure il fatto che fosse là in mezzo agli altri, insieme a tutti quei volti di persone che se n’erano andati prima di lui, mi lasciava addosso come un senso di conforto. Come se non fosse solo in quella dimensione che pure non capivo e non accettato. Oggi invece, chi va a trovarlo, scopre una tomba monumentale, adorna di fiori, sculture, ricordi, trofei. Un altare alla memoria. Eppure in questo trionfo di marmi e luce, che pure celebra la sua grandezza in vita, lo sento più lontano, più solo, come se non appartenesse più alla gente che l’amava. “La morte è ‘na livella”, diceva Totò: non sottrae grandezza ai grandi e non innalza i piccoli. Nell’uguaglianza di tutti di fronte alla fine c’è il conforto ultimo: perché ciò che tocca a te, tocca a tutti. E l’immagine di un uomo famoso e osannato, accanto ad un volto sconosciuto, regala sensazioni di pace e serenità. Anche nella tragedia della morte.
La notizia giunse come il classico fulmine a ciel sereno, e quella morte solitaria e disperata lasciò sgomenti tutti, non solo gli appassionati delle due ruote. Pantani era stato un idolo in vita, al vertice della notorietà e della stima, e in quel fantastico 1998 divenne il ciclista più amato dell’epoca moderna, vincendo nello stesso anno Giro e Tour. Un’impresa riuscita a pochissimi. Questa vicenda mi fa pensare al mio avvicinamento al ciclismo. In fondo ci si avvicina ad uno sport soprattutto perché ci facciamo travolgere dal mito del campione, dell’eroe osannato, faro dell’Umanità. Siamo alla fine degli anni 90’ e il mio collega – e amico – Marco, che in gioventù era stato un discreto sprinter, aveva coinvolto me ed altri in questo sport. Alcuni acquistarono una bicicletta nuova, altri riattarono quella di un qualche parente, e via sui pedali. Le nostre erano uscite per lo più domenicali su per i colle brianzoli. Uscite da pensionati verrebbe da dire. Verrebbe da dire per chi non conosce i pensionati che vanno a correre sulle due ruote. Ci volle poco infatti per capire che quella categoria di veterani andava trattata con molto, ma molto rispetto. Un giorno partii spocchioso e baldanzoso, confidando nella freschezza della mia gioventù, ma già al quindicesimo chilometro stramaledivo me, la bicicletta e tutti quei dannati vegliardi che filavano via sul filo dei quaranta all’ora. Giunsi a casa strisciando su gomiti e ginocchia, sfiancato. Per settimane lasciai la bicicletta appesa al chiodo, meditando di darmi al curling (nel ruolo del portatore di scopetta mi ci vedevo benissimo). Poi col tempo ripresi a correre. Quando a maggio giungeva il Giro d’Italia dalle nostre parti, si decideva di andare a seguire una tappa. Di solito la più impegnativa. E così in quel lontano 1999 Marco ed io optammo per la tappa del Mortirolo. Il campionissimo del momento era Marco Pantani. Qualche mese prima avevo avuto il privilegio di conoscerlo personalmente, presso la fiera di Milano, in occasione dell’Eicma, il “salone della bicicletta”. Egli veniva dai trionfi dell’anno prima, dalle vittorie al Giro e al Tour. Era all’apice della carriera, osannato e venerato come un semidio. La società per la quale lavoravo si occupava anche di sicurezza e così quel giorno venne organizzato un servizio di scorta per lui. Avrebbe visitato alcuni stand della fiera, tenuto una conferenza, stretto mani, firmato autografi, ma in quella calca di visitatori-tifosi era necessario un minimo di servizio d’ordine. L’entusiasmo che ci accompagnò per tutta la sua permanenza in fiera fu incredibile, la confusione totale. Durammo fatica a contenere tutta quella massa di persone che spingevano per toccare Pantani, per stringergli la mano, per farsi fotografare insieme a lui. Egli si aggirava spaesato, lo sguardo come assente, distaccato. Non c’erano lampi di gioia nei suoi occhi, né di afflizione o tristezza. Sembrava che la sua mente fosse altrove, lontana. Le ultime parole che pronunciò dal palco della Gazzetta dello Sport furono quelle di risposta alla domanda del giornalista che gli chiedeva quale vittoria di tappa avrebbe desiderato per il prossimo Giro. Ed egli rispose: «Il Mortirolo». Un boato di tifosi accompagnò la sua uscita dal padiglione.
E così in quel maggio del ‘99 Marco ed io salimmo in mattinata verso la vetta di quel passo, transitando da Tirano e poi su da Mazzo di Valtellina. La corsa sarebbe passata nel primo pomeriggio e noi lì avremmo atteso i ciclisti. Fu una delle fatiche più immani della mia vita. Le pendenze erano talmente impegnative e costanti che lasciavano totalmente senza fiato. Giunti a metà salita, vale a dire intorno al sesto chilometro ci fermammo. Era il punto più infame di quella lunga e strettissima striscia d’asfalto che puntava verso il cielo, e qui i ciclisti avrebbero dovuto dare il meglio di loro stessi per prevalere sugli avversari. Ci accampammo a bordo strada e cominciammo a pregustarci lo spettacolo che sicuramente Pantani avrebbe offerto senza risparmiarsi. Intorno a mezzogiorno ci sintonizzammo su Radio-Corsa e solo allora scoprimmo che Pantani era stato fermato alla partenza per ematocrito fuori limite massimo. Fu una delusione che lasciò sgomenti, affranti e senza parole. E così perso il campione ci restarono Gotti, Heras e alcuni altri comprimari e portaborracce. I corridori furono preceduti dalle moto apripista e in brevissimo tempo furono da noi. I primi salivano come se non facessero fatica, solo una smorfia appena accennata di sofferenza e una sudorazione preoccupante facevano intuire l’enorme sforzo a cui si sottoponevano. Gli ultimi invece, opportunamente lontani dalle telecamere, non solo non rifiutavano le spinte dei tifosi, ma anzi le incoraggiavano. Il mio amico Marco, a rischio di un infarto, ne accompagnò una mezza dozzina spingendoli per venti-trenta metri. Per me invece c’era ancora la delusione, uno sconforto amarissimo che mi inchiodava sul mio pezzettino d’asfalto.
Senza più il mio idolo mi allontanai col tempo dal ciclismo: è il destino che tocca a tutti coloro che amano troppo intensamente. Le corse ciclistiche senza Pantani non furono più le stesse: là dove un tempo c’era la certezza che prima o poi sarebbe accaduto il classico coup de théâtre a cui ci aveva abituato tante volte, ovvero il gesto atletico che lascia senza fiato e riempie di entusiasmo e commozione, ora c’era una cupa monotonia, giocata da corridori sparagnini, timorosi e calcolatori. Cioè corse che si accendevano – per modo di dire – solo negli ultimi 2-3 chilometri: così, tanto per fare un po’ di scena per il pubblico, senza tuttavia farsi troppo male. No, non faceva più per me quel genere di spettacolo.
Io non so con certezza se Pantani facesse o meno uso di droghe: un’analisi particolare del midollo osseo, eseguita dopo la sua morte, ha escluso un uso frequente e in quantità elevata di Epo durante la sua carriera. Può essere che in determinate circostanze, in momenti particolarmente bui della sua carriera, abbia ceduto alla tentazione. Questo non lo escludo. E pur tuttavia, considerato tutto ciò che è emerso nel corso degli anni, vale a dire la scoperta continua e sistematica di episodi analoghi legati a campioni e vincitori delle più prestigiose gare, viene da pensare davvero che il doping sia purtroppo una pratica largamente diffusa. E che di conseguenza, per emergere tra i migliori, sia quasi obbligatorio doparsi. Questa è il sospetto più che legittimo.
Qualche mese dopo la morte di Marco, andai a Cesenatico, a fargli visita. Al cimitero c’era ancora una sistemazione provvisoria, un loculo anonimo tra i tanti. Guardare la sua fotografia, là dentro a quella cornicetta dorata, mi dava una strana sensazione: come di incredulità. Non mi sembrava possibile che fosse vero che Pantani fosse morto. Eppure il fatto che fosse là in mezzo agli altri, insieme a tutti quei volti di persone che se n’erano andati prima di lui, mi lasciava addosso come un senso di conforto. Come se non fosse solo in quella dimensione che pure non capivo e non accettato. Oggi invece, chi va a trovarlo, scopre una tomba monumentale, adorna di fiori, sculture, ricordi, trofei. Un altare alla memoria. Eppure in questo trionfo di marmi e luce, che pure celebra la sua grandezza in vita, lo sento più lontano, più solo, come se non appartenesse più alla gente che l’amava. “La morte è ‘na livella”, diceva Totò: non sottrae grandezza ai grandi e non innalza i piccoli. Nell’uguaglianza di tutti di fronte alla fine c’è il conforto ultimo: perché ciò che tocca a te, tocca a tutti. E l’immagine di un uomo famoso e osannato, accanto ad un volto sconosciuto, regala sensazioni di pace e serenità. Anche nella tragedia della morte.
martedì 11 febbraio 2014
La teoria del Professore
La vita è grama, si sa, soprattutto di questi tempi, e per forza di cose tocca ingegnarsi. Ultimamente, io e un mio caro amico di Roma, insegnante delle scuole medie, stiamo tentando la sorte scommettendo sulle partite del Campionato di calcio. Sono puntate di pochi euri, s’intende, miserrime verrebbe da dire, data la condizione economica di entrambi. E pur tuttavia le stesse non sono mai prive di una certa ambizione e arroganza: l’idea infatti è quella di ‘acchiappare’ molto, spendendo assai poco. Ed infatti fino ad ora non abbiamo ‘acchiappato’ proprio un bel niente.
Ora però, i due provetti giocatori (finora sfortunati) hanno finalmente un metodo infallibile per diventare milionari in men che non si dica.
Vado subito a presentare il numero (molto bello e completo), convinto che ciò possa far cosa gradita a tutti i lettori del blog.
Allora amici, statemi a sentire. Il Professore ha elaborato una teoria per vincere con le scommesse che, a suo dire, è infallibile. Mah…, se lo dice lui che è uomo di lettere, e ha molto studiato…! Dunque, vediamo se mi riesce di spiegarvela: egli (cioè lui, ovvero il Professore) sostiene che un risultato prima o poi (stocasticamente parlando) deve uscire, indi per cui se uno gioca, poniamo caso sempre sul Napoli vincente, prima o poi l’azzecca. L’importante è giocare sempre la stessa squadra, e sempre lo stesso risultato (un po’ come fanno i giocatori professionisti della roulette…). Mi seguite? Bene. Ora può essere che se punto la prima volta cinque monete sul Napoli vincente, magari non l’azzecco perché il Napoli perde; magari non l’azzecco la seconda volta perché il Napoli pareggia. Alla terza idem, così come per la quarta...! Ok, ma arriverà un momento in cui ‘sti c…o di napoletani vinceranno…! Questa è statistica…! Orbene, la genialata del Professore sta in questo: prima giocata cinque monete. Bon perse. Seconda giocata: raddoppio la posta, ovvero dieci monete. E così di seguito. In caso di vittoria del Napoli, non solo recupero il credito perso con la prima giocata, ma per effetto del moltiplicatore (mettiamo caso che la vittoria del Napoli sia data a 2) ce vado a guadagna’. Tutto chiaro? Può succedere per assurdo che si vada sotto pure di 2-300 monete durante la ricerca del risultato…, ma prima o poi se becca…! Ammazza quanto se becca…! Dico bene Alessa’? Allora, chi ci sta a metter su la Nuova Banda del Buco? (“M’hanno rimasto solo ‘sti quattro cornuti...”).
Ciao raga’, vedo che state tutti bene ed avete sempre voglia di scherzare. La teoria è infallibile, il problema è che si deve avere moneta da investire, molta moneta: almeno la mia finisce prima, molto prima, che arrivi la vincita che in teoria dovrebbe ripagare abbondantemente ogni perdita! E poi, almeno per me, la sfiga ci vede benissimo ! Quindi risparmio per il trek di Pasqua che Lorenzo sta organizzando perfettamente. Saluti e un abbraccio. P.S. Come stanno le colleghe del Prof, quelle con le B di ‘bona’, ‘bella’… e mi fermo qui? Bacioni Piazza (Enrico).
Be’ non c’è dubbio, come direbbe Gassman é un metodo “sc-sc-scientifico…”. Però scusate, non sarebbe più semplice scommettere sui Gobbi juventini? Quelli arubbano, e vincheno sempre! (Salvo).
Grazie, Luigi, per aver fedelmente riportato la mia teoria, lo hai fatto con termini molto chiari e diretti, nonché divertenti. Bisogna però apportare una precisazione che divulgo a tutti gli amici del Listone: per vincere molte monete bisogna puntare sempre (cioè finché non si vince) non sulla vittoria di una squadra, ma sul pareggio. Nessuna squadra vince o perde sempre, ma tutte o quasi tutte, anche le squadre più forti, pareggiano almeno una volta nell’arco dell’intero campionato (in realtà pareggiano anche di più); inoltre il pareggio è sempre dato a quote molto alte, ciò vuol dire vincite davvero elevate. Vi illustro un prospetto come esempio pratico. Si comincia giocando due monete sul pareggio del Napoli. La squadra perde, la volta successiva si punta di nuovo sul pareggio del Napoli, ma si deve raddoppiare la posta (indispensabile per recuperare la perdita della prima giocata), la squadra perde di nuovo; la terza volta si punta sul pareggio raddoppiando ancora e così via, finché non si indovina il risultato per passare poi dalla ‘commessa bona’ (una con tantissime B!!!) del punto SNAI vicino casa mia a riscuotere la vincita.
Teoria di un insegnante romano (e chi altri poteva partorire una teoria simile se non un romano? Poi noi romani ci lamentiamo se al nord ci considerati degli scansafatiche…)
TEORIA LUDICA PER DIVENTARE RICCHI SENZA FARE UN CAZZO
Prima giocata sul pareggio di una squadra qualunque (che sarà mantenuta per tutta la serie di giocate, fino alla vincita): 2 monete;
Seconda giocata, stessa squadra e stesso risultato: 4 monete;
Terza giocata, 8 monete;
Quarta giocata, 16 monete;
Quinta giocata, 32 monete;
Sesta giocata, 64 monete;
Settima giocata, 128 monete;
A questo punto, anche il più sfigato al mondo vincerebbe, ma poniamo il caso che il giocatore continui a perdere…
Ottava giocata, 256 monete;
Nona giocata, 512 monete;
A questo punto la giocata diventa molto pesante, ma non ci si deve assolutamente tirare indietro, perché sarebbe la fine! E comunque è molto improbabile non riuscire a vincere alla nona giocata, ma procediamo;
Decima giocata, 1024 monete. Si indovina il risultato. La squadra scelta è data, poniamo il caso, a 4 (ma spesso i pareggi sono dati pure a 7!!!), avete idea di quanto potrei riscuotere dalla ‘commessa bona’ del punto SNAI? È presto detto: 1024 x 4 = 4096. Se invece il pareggio è dato a 7 diventano: 1024 x 7 = 7168 monete!!! Anche detratte tutte le perdite, la vincita è comunque molto consistente.
In tutta franchezza, credo valga la pena di tentare. Bisogna informarsi però se c’è un limite di puntata su una singola partita. Temo di sì…
(Alessandro er prof. de Roma).
Molto tempo fa ho provato anch’io la strada del guadagno facile, ma si è rivelato un buco nell'acqua…! Alla fine ho vinto non giocando (Lorenzo).
Il Maratoneta ha perfettamente ragione: vinciamo se non giochiamo. Lorenzo è veramente una persona molto, ma molto saggia… E poi, anche se vinciamo 20 monete, che cavolo ci facciamo? Poveri siamo e poveri restiamo…! (Alessandro, er prof. de Roma).
E va be’, allora semo destinati a restare dei poveri spiantati? E l’attico a Porta Romana quanno me lo compro? Allora tiè…, tiè fortuna…! (Yanez).
“Cardone..., l’intimo non vi rode...?” https://www.youtube.com/watch?v=MhTZrK_nCzM
Ora però, i due provetti giocatori (finora sfortunati) hanno finalmente un metodo infallibile per diventare milionari in men che non si dica.
Vado subito a presentare il numero (molto bello e completo), convinto che ciò possa far cosa gradita a tutti i lettori del blog.
Allora amici, statemi a sentire. Il Professore ha elaborato una teoria per vincere con le scommesse che, a suo dire, è infallibile. Mah…, se lo dice lui che è uomo di lettere, e ha molto studiato…! Dunque, vediamo se mi riesce di spiegarvela: egli (cioè lui, ovvero il Professore) sostiene che un risultato prima o poi (stocasticamente parlando) deve uscire, indi per cui se uno gioca, poniamo caso sempre sul Napoli vincente, prima o poi l’azzecca. L’importante è giocare sempre la stessa squadra, e sempre lo stesso risultato (un po’ come fanno i giocatori professionisti della roulette…). Mi seguite? Bene. Ora può essere che se punto la prima volta cinque monete sul Napoli vincente, magari non l’azzecco perché il Napoli perde; magari non l’azzecco la seconda volta perché il Napoli pareggia. Alla terza idem, così come per la quarta...! Ok, ma arriverà un momento in cui ‘sti c…o di napoletani vinceranno…! Questa è statistica…! Orbene, la genialata del Professore sta in questo: prima giocata cinque monete. Bon perse. Seconda giocata: raddoppio la posta, ovvero dieci monete. E così di seguito. In caso di vittoria del Napoli, non solo recupero il credito perso con la prima giocata, ma per effetto del moltiplicatore (mettiamo caso che la vittoria del Napoli sia data a 2) ce vado a guadagna’. Tutto chiaro? Può succedere per assurdo che si vada sotto pure di 2-300 monete durante la ricerca del risultato…, ma prima o poi se becca…! Ammazza quanto se becca…! Dico bene Alessa’? Allora, chi ci sta a metter su la Nuova Banda del Buco? (“M’hanno rimasto solo ‘sti quattro cornuti...”).
Ciao raga’, vedo che state tutti bene ed avete sempre voglia di scherzare. La teoria è infallibile, il problema è che si deve avere moneta da investire, molta moneta: almeno la mia finisce prima, molto prima, che arrivi la vincita che in teoria dovrebbe ripagare abbondantemente ogni perdita! E poi, almeno per me, la sfiga ci vede benissimo ! Quindi risparmio per il trek di Pasqua che Lorenzo sta organizzando perfettamente. Saluti e un abbraccio. P.S. Come stanno le colleghe del Prof, quelle con le B di ‘bona’, ‘bella’… e mi fermo qui? Bacioni Piazza (Enrico).
Be’ non c’è dubbio, come direbbe Gassman é un metodo “sc-sc-scientifico…”. Però scusate, non sarebbe più semplice scommettere sui Gobbi juventini? Quelli arubbano, e vincheno sempre! (Salvo).
Grazie, Luigi, per aver fedelmente riportato la mia teoria, lo hai fatto con termini molto chiari e diretti, nonché divertenti. Bisogna però apportare una precisazione che divulgo a tutti gli amici del Listone: per vincere molte monete bisogna puntare sempre (cioè finché non si vince) non sulla vittoria di una squadra, ma sul pareggio. Nessuna squadra vince o perde sempre, ma tutte o quasi tutte, anche le squadre più forti, pareggiano almeno una volta nell’arco dell’intero campionato (in realtà pareggiano anche di più); inoltre il pareggio è sempre dato a quote molto alte, ciò vuol dire vincite davvero elevate. Vi illustro un prospetto come esempio pratico. Si comincia giocando due monete sul pareggio del Napoli. La squadra perde, la volta successiva si punta di nuovo sul pareggio del Napoli, ma si deve raddoppiare la posta (indispensabile per recuperare la perdita della prima giocata), la squadra perde di nuovo; la terza volta si punta sul pareggio raddoppiando ancora e così via, finché non si indovina il risultato per passare poi dalla ‘commessa bona’ (una con tantissime B!!!) del punto SNAI vicino casa mia a riscuotere la vincita.
Teoria di un insegnante romano (e chi altri poteva partorire una teoria simile se non un romano? Poi noi romani ci lamentiamo se al nord ci considerati degli scansafatiche…)
TEORIA LUDICA PER DIVENTARE RICCHI SENZA FARE UN CAZZO
Prima giocata sul pareggio di una squadra qualunque (che sarà mantenuta per tutta la serie di giocate, fino alla vincita): 2 monete;
Seconda giocata, stessa squadra e stesso risultato: 4 monete;
Terza giocata, 8 monete;
Quarta giocata, 16 monete;
Quinta giocata, 32 monete;
Sesta giocata, 64 monete;
Settima giocata, 128 monete;
A questo punto, anche il più sfigato al mondo vincerebbe, ma poniamo il caso che il giocatore continui a perdere…
Ottava giocata, 256 monete;
Nona giocata, 512 monete;
A questo punto la giocata diventa molto pesante, ma non ci si deve assolutamente tirare indietro, perché sarebbe la fine! E comunque è molto improbabile non riuscire a vincere alla nona giocata, ma procediamo;
Decima giocata, 1024 monete. Si indovina il risultato. La squadra scelta è data, poniamo il caso, a 4 (ma spesso i pareggi sono dati pure a 7!!!), avete idea di quanto potrei riscuotere dalla ‘commessa bona’ del punto SNAI? È presto detto: 1024 x 4 = 4096. Se invece il pareggio è dato a 7 diventano: 1024 x 7 = 7168 monete!!! Anche detratte tutte le perdite, la vincita è comunque molto consistente.
In tutta franchezza, credo valga la pena di tentare. Bisogna informarsi però se c’è un limite di puntata su una singola partita. Temo di sì…
(Alessandro er prof. de Roma).
Molto tempo fa ho provato anch’io la strada del guadagno facile, ma si è rivelato un buco nell'acqua…! Alla fine ho vinto non giocando (Lorenzo).
Il Maratoneta ha perfettamente ragione: vinciamo se non giochiamo. Lorenzo è veramente una persona molto, ma molto saggia… E poi, anche se vinciamo 20 monete, che cavolo ci facciamo? Poveri siamo e poveri restiamo…! (Alessandro, er prof. de Roma).
E va be’, allora semo destinati a restare dei poveri spiantati? E l’attico a Porta Romana quanno me lo compro? Allora tiè…, tiè fortuna…! (Yanez).
“Cardone..., l’intimo non vi rode...?” https://www.youtube.com/watch?v=MhTZrK_nCzM
venerdì 7 febbraio 2014
Nanga Parbat, la prima ascesa invernale
Forse non tutti il listoniani sanno che il nostro Enrico , soprannominato “lo stambecco delle Orobie” per via delle sue spiccate doti da montanaro (resistenza quasi sovrumana alla fatica, equilibrio impareggiabile dato dal baricentro basso, assenza totale di vertigini, coraggio indomito etc…) è stato compagno di classe al liceo con uno dei più forti alpinisti degli ultimi decenni: Simone Moro.
Se io avessi una tale amicizia da vantare - invece che semplici avvocati, manager aziendali e docenti universitari vari - non perderei occasione di sbandierarla al mondo intero. Ma Enrico, si sa, è persona discreta, riservata, e quelle poche volte che ha avuto occasione di incontrare Simone Moro per eventi pubblici, se n’è rimasto in disparte, quasi vergognoso di appalesare al mondo quella sua conoscenza. Una sola volta pare che abbia infranto i muri della sua modestia e si sia presentato a Simone per salutarlo e ricordargli i vecchi tempi. E Simone, pur essendo in procinto di partire per una spedizione himalayana, e non avendo dunque molto tempo da perdere, pare che lo abbia abbracciato con grande entusiasmo.
Ora a Enrico farà senza dubbio piacere sapere che Simone in questi giorni si trova in Pakistan, impegnato in una prima assoluta: la scalata invernale del Nanga Parbat.
Con i suoi 8.125 metri, il Nanga Parbat è la nona vetta della Terra, ed è considerata una delle montagne più pericolose da scalare («È il secondo ottomila - subito dopo l’Annapurna - per indice di mortalità, ovvero rapporto tra vittime ed ascensioni tentate, con un valore che si aggira intorno al 28 per cento, tanto da essere spesso soprannominata anche “the killer mountain”» - Wipikepia).
Nanga Parbat, in lingua urdu significa “montagna nuda”. Ed in effetti basta dare un’occhiata alla sua vetta per scoprire che le pareti sommitali, a causa delle pendenze estremamente elevate, sono quasi prive di neve.
La storia della conquista del Nanga Parbat parte da lontano: il primo tentativo venne portato avanti dall’inglese Alber Mummary nel 1895, ma fallì tragicamente. Nel ’32 e nel ’34 ci provarono i tedeschi, ma anche sta volta l’impresa non fu coronata dal successo (tre alpinisti più sei portatori morti a causa di una tormenta). Dal ’37 al ’39, ancora i tedeschi (che avevano eletto il Nanga Parbat a loro montagna sacra) ci riprovarono, ma per varie vicissitudini, non ultima lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il successo non arrivò mai. Il primo uomo a mettere piede sulla vetta fu l’intrepido austriaco Hermann Buhl, il 3 luglio del ’53. L’ultimo tratto lo fece da solo, e senza ossigeno. Un’impresa strabiliante per quei tempi.
Vi fu poi la salita del ’62 di Toni Kinshofer, Sigfried Löw e Anderl Mannhardt; e ancora quella tragica del ’70 di Reinhold e Günther Messner, raccontata da Reinhold in “Razzo rosso sul Nanga Parbat”.
Ecco, ora in questi giorni, come riporta il sito dell’Ansa «Simone Moro e il compagno di cordata David Gottler stanno tentando di raggiungere - in prima assoluta invernale - la vetta. “Simone e David sono a Campo Uno, dove si trovano anche due polacchi. La tendina non è stata danneggiata dal vento o dalla neve. Al momento a Campo Uno è molto freddo e ventoso” riferisce Emilio Previtali, membro della spedizione invernale al Nanga Parbat assieme a Simone Moro e David Gottler, che supporta il team dal campo base. Nelle prossime ore gli alpinisti riceveranno il bollettino meteo con le previsioni dei prossimi giorni, soprattutto per capire quanto durerà la finestra di bel tempo attesa all'inizio della prossima settimana».
In bocca al lupo ragazzi.
Fonte: http://www.simonemoro.com/content/nanga-parbat-2014
http://it.wikipedia.org/wiki/Nanga_Parbat
http://www.ansa.it/web/notizie/photostory/sport/2014/02/07/Simone-Moro-pronto-scalata-Nanga-Parbat_10029980.html
Ora a Enrico farà senza dubbio piacere sapere che Simone in questi giorni si trova in Pakistan, impegnato in una prima assoluta: la scalata invernale del Nanga Parbat.
Con i suoi 8.125 metri, il Nanga Parbat è la nona vetta della Terra, ed è considerata una delle montagne più pericolose da scalare («È il secondo ottomila - subito dopo l’Annapurna - per indice di mortalità, ovvero rapporto tra vittime ed ascensioni tentate, con un valore che si aggira intorno al 28 per cento, tanto da essere spesso soprannominata anche “the killer mountain”» - Wipikepia).
Nanga Parbat, in lingua urdu significa “montagna nuda”. Ed in effetti basta dare un’occhiata alla sua vetta per scoprire che le pareti sommitali, a causa delle pendenze estremamente elevate, sono quasi prive di neve.
La storia della conquista del Nanga Parbat parte da lontano: il primo tentativo venne portato avanti dall’inglese Alber Mummary nel 1895, ma fallì tragicamente. Nel ’32 e nel ’34 ci provarono i tedeschi, ma anche sta volta l’impresa non fu coronata dal successo (tre alpinisti più sei portatori morti a causa di una tormenta). Dal ’37 al ’39, ancora i tedeschi (che avevano eletto il Nanga Parbat a loro montagna sacra) ci riprovarono, ma per varie vicissitudini, non ultima lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il successo non arrivò mai. Il primo uomo a mettere piede sulla vetta fu l’intrepido austriaco Hermann Buhl, il 3 luglio del ’53. L’ultimo tratto lo fece da solo, e senza ossigeno. Un’impresa strabiliante per quei tempi.
Vi fu poi la salita del ’62 di Toni Kinshofer, Sigfried Löw e Anderl Mannhardt; e ancora quella tragica del ’70 di Reinhold e Günther Messner, raccontata da Reinhold in “Razzo rosso sul Nanga Parbat”.
Ecco, ora in questi giorni, come riporta il sito dell’Ansa «Simone Moro e il compagno di cordata David Gottler stanno tentando di raggiungere - in prima assoluta invernale - la vetta. “Simone e David sono a Campo Uno, dove si trovano anche due polacchi. La tendina non è stata danneggiata dal vento o dalla neve. Al momento a Campo Uno è molto freddo e ventoso” riferisce Emilio Previtali, membro della spedizione invernale al Nanga Parbat assieme a Simone Moro e David Gottler, che supporta il team dal campo base. Nelle prossime ore gli alpinisti riceveranno il bollettino meteo con le previsioni dei prossimi giorni, soprattutto per capire quanto durerà la finestra di bel tempo attesa all'inizio della prossima settimana».
In bocca al lupo ragazzi.
Fonte: http://www.simonemoro.com/content/nanga-parbat-2014
http://it.wikipedia.org/wiki/Nanga_Parbat
http://www.ansa.it/web/notizie/photostory/sport/2014/02/07/Simone-Moro-pronto-scalata-Nanga-Parbat_10029980.html
giovedì 6 febbraio 2014
“Un’idea di destino”, ovvero l’ultimo Terzani
Il 28 luglio del 2004, all’età di 65 anni, moriva Tiziano Terzani. Un paio di mesi dopo, nelle librerie apparve Un altro giro di giostra, quello che per molti è considerato il suo testamento spirituale. Fu un successo editoriale e mediatico di proporzioni colossali. Altro che i libri di Gramellini…! E proprio per questa enorme onda di marea che tutto appiattiva in un entusiasmo senza discernimento, decisi di non leggere subito quel volume. Ci arrivai un paio d’anni dopo, quando il tempo aveva fatto scorrere la giusta distanza da quell’esaltazione di massa. Terzani fu per me una scoperta straordinaria, una porta che si spalancava sulla dimensione infinita del “viaggio”, dentro e fuori da se. Un altro giro di giostra fu il primo libro che lessi e lo scorrere di quelle pagine fece nascere in me il desiderio di leggere tutto ciò che aveva scritto questo autore. M’immersi così nella magia di Un indovino mi disse («Una buona occasione nella vita si presenta sempre. Il problema è saperla riconoscere e a volte non è facile. La mia, per esempio, aveva tutta l’aria di essere una maledizione: “Attento! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell’anno non volare. Non volare mai”, m’aveva detto un indovino…»); poi passai al meraviglioso Buonanotte, signor Lenin («Mi perdo a pensare quant’è umanamente particolare questo momento storico dell’Unione Sovietica. Il sistema comunista, che per decenni ha determinato la vita di tutti, e spessissimo anche la loro morte, sta crollando…»); e a seguire Lettere contro la guerra («Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia»); In Asia; La Porta Proibita; Pelle di leopardo. Un libro più bello dell’altro. Attraverso le parole che Terzani metteva sul foglio bianco, si levavano gli ormeggi e si partiva alla scoperta di terre lontane, conosciute per sentito dire. E con lui ci si affacciava su mondi nuovi, si capivano culture diverse da noi, ci si entusiasmava e - cosa assai rara nel panorama dei reportage giornalistici - si provavano le sue stesse sensazioni. Perché in fondo Terzani, a differenza di tanti altri scrittori e corrispondenti esteri, aveva la capacità di trasmettere, attraverso i suoi scritti, l’enorme passione che lo spingeva per il suo lavoro. Che non era neanche più lavoro, a quel punto, ma possibilità di dare concretezza al suo sogno di viaggiare e scoprire il mondo. Postumi, a parte Un altro giro di giostra, seguirono La fine è il mio inizio (un libro intervista scritto a quattro mani col figlio Fosco) e Fantasmi (che racconta la guerra di Cambogia). L’ultimo in ordine di pubblicazione, Un mondo che non esiste più, è un libro fotografico, e raccoglie gli scatti di Terzani nel corso della sua lunga carriera di inviato.
Ora, a distanza di dieci anni dalla sua morte, Longanesi si appresta a mandare nelle librerie una raccolta dei suoi diari personali: Un’idea di destino. Gli scritti abbracciano il ventennio 1984-2004 e raccontano delle sue esperienze, e soprattutto delle sue riflessioni, durante in suoi viaggi in Cina, India, Vietnam, Cambogia, Stati Uniti. Si tratta evidentemente di scritti più intimi, riflessioni profonde, lettere ai propri cari, appunti raccolti e ordinati con molta cura dall’autore stesso, fino alle ultime ore della sua vita. Angela Staude, la vedova di Terzani, racconta in un’intervista a Il Messaggero, che il marito cominciò a scrivere i suoi diari subito dopo l’espulsione dalla Cina. In quell’epoca il regime comunista non tollerava che si potesse andare a spasso a raccontare la realtà dei fatti. Il giornale Der Spiegel permise a Terzani di scegliere un’altra meta di lavoro, e così giunse il Giappone (per inciso, nessun giornale italiano gli aveva mai offerto un lavoro…). Qui Terzani andò incontro ad una crisi depressiva («… vedere un pezzo dell’Asia trasformarsi in una brutta copia degli Stati Uniti lo ha fatto cadere in depressione», dice la moglie) dalla quale ne uscì grazie alla stesura di Un indovino mi disse. Con la malattia - aggiunge sempre Angela - Tiziano smise di fare il giornalista, ma continuò a viaggiare, e soprattutto fu libero di approfondire gli argomenti che più gli stavano a cuore («… quando faceva il giornalista, ed era contento di esserlo io invece tenevo un diario. E lui mi ha detto più volte “ti invidio, tu puoi riflettere, io devo subito passare a qualcos’altro”. Alla fine aveva più tempo anche lui»).
Lettura imperdibile per gli amanti di quest’autore…
Fonte: http://www.ilmessaggero.it/cultura/libri/angela_terzani_staude_diari_di_tiziano_terzani/notizie/483590.shtml
Ora, a distanza di dieci anni dalla sua morte, Longanesi si appresta a mandare nelle librerie una raccolta dei suoi diari personali: Un’idea di destino. Gli scritti abbracciano il ventennio 1984-2004 e raccontano delle sue esperienze, e soprattutto delle sue riflessioni, durante in suoi viaggi in Cina, India, Vietnam, Cambogia, Stati Uniti. Si tratta evidentemente di scritti più intimi, riflessioni profonde, lettere ai propri cari, appunti raccolti e ordinati con molta cura dall’autore stesso, fino alle ultime ore della sua vita. Angela Staude, la vedova di Terzani, racconta in un’intervista a Il Messaggero, che il marito cominciò a scrivere i suoi diari subito dopo l’espulsione dalla Cina. In quell’epoca il regime comunista non tollerava che si potesse andare a spasso a raccontare la realtà dei fatti. Il giornale Der Spiegel permise a Terzani di scegliere un’altra meta di lavoro, e così giunse il Giappone (per inciso, nessun giornale italiano gli aveva mai offerto un lavoro…). Qui Terzani andò incontro ad una crisi depressiva («… vedere un pezzo dell’Asia trasformarsi in una brutta copia degli Stati Uniti lo ha fatto cadere in depressione», dice la moglie) dalla quale ne uscì grazie alla stesura di Un indovino mi disse. Con la malattia - aggiunge sempre Angela - Tiziano smise di fare il giornalista, ma continuò a viaggiare, e soprattutto fu libero di approfondire gli argomenti che più gli stavano a cuore («… quando faceva il giornalista, ed era contento di esserlo io invece tenevo un diario. E lui mi ha detto più volte “ti invidio, tu puoi riflettere, io devo subito passare a qualcos’altro”. Alla fine aveva più tempo anche lui»).
Lettura imperdibile per gli amanti di quest’autore…
Fonte: http://www.ilmessaggero.it/cultura/libri/angela_terzani_staude_diari_di_tiziano_terzani/notizie/483590.shtml
lunedì 3 febbraio 2014
Choice map: la vita senza più lo stress di dover scegliere…
“Ale, sai tante volte - e sempre più spesso negli ultimi tempi - mi soffermo a riflettere sulle scelte che ho compiuto nel corso della mia vita, sulle decisioni prese, sul mio modo di vedere il mondo, che inevitabilmente ha condizionato la mia esistenza. E guardandomi indietro vedo bivi che hanno influenzato in maniera definitiva quello che sono oggi. Nel bene e nel male. Ma, se potendo tornare indietro, prendessi un’altra strada, come cambierebbe la mia vita? Sicuramente sarebbe diversa, forse mi piacerebbe di più, o magari no: l’unica certezza è che, avendo compiuto quella data scelta, non vivrò mai quella vita che mi sarebbe spettata se avessi optato diversamente”.
Così ragionavo con la mia amica Alessandra qualche settimana fa, durante una di quelle giornate tremendamente uggiose, umide e cariche di tinte grigie. Tipo queste ultime. D’altra parte, come diceva giustamente Flaiano, più si va avanti con l’età più i rimorsi lasciano campo ai rimpianti; e compiere gli anni durante i “giorni della merla” non aiuta affatto l’umore...! Certo che ci vuole una bella fantasia per far nascere un figlio nella stagione più brutta dell’anno…!
Va be’, ma a parte questo, è un dato di fatto che la maggior parte delle persone - ad un certo punto della loro vita - debbano fare dei bilanci. Ed i bilanci, per definizione, prevedono profitti e perdite. A chi infatti non è mai capitato di pensare che una scelta sbagliata abbia comportato conseguenze negative sulla propria vita? (Forse a Razzi, ma non ne sono certissimo…). Oppure che una scelta sbagliata in quel determinato momento storico della propria esistenza, si sia al contrario rivelata quella giusta sul lungo periodo. È il mistero della vita, e va accettato così com’è. Gli antichi per esempio credevano che il fato sopraintendesse alle esistenze di tutti i mortali, e che le scelte compiute più o meno consapevolmente da ognuno, altro non fossero che l’esecuzione automatica di ciò che era stato già scritto sul libro del destino. I protestanti, nei secoli hanno elaborato la teoria della predestinazione; e per Verga, cercare di allontanarsi dal sentiero tracciato per ognuno di noi (il naufragio della ‘Provvidenza’ dei Malavoglia), equivale alla rovina: “il ciclo dei vinti”. Per noi moderni invece, - abbagliati dal mito della ragione - il destino è qualcosa che risiede saldamente nelle nostre mani, e quindi ogni singola scelta compiuta nel corso della vita è un passaggio fondamentale per raggiungere le nostre aspirazioni. Già, ma proprio perché tutto dipende da noi, ecco che la scelta della strada giusta da percorrere diventa inevitabilmente un macigno carico di ansia e angoscia. Questo fino a ieri…! Come forse saprete, da oggi in poi abbiamo tutti uno strumento in più per non commettere errori: di alcun genere…! Il geniale Jonathan Jackson, esperto informatico, ha messo a punto uno straordinario programmino in grado di cavarci definitivamente dagli impicci: accettare o no un determinato lavoro? mollare o no la fidanzata? pizza ai peperoni e salsiccia, o una semplice margherita? Da questo momento non avrete più nessun assillo, più nessuna preoccupazione: decide per voi il programmino…! (che io peraltro, data l’importanza del compito che gli si affibia, chiamerei “programmone”). E come si chiama il fantasmagorico gingillo? “Choice Map”: semplicissimo anche il nome…! L’applicazione, come sottolinea l’inventore si basa su un algoritmo matematico, ed è in grado di risolvere questioni sociali: “Tutti facciamo errori, questo ha dato vita all’idea di una piattaforma digitale che aiutasse le persone a prendere le decisioni migliori”. Fantastico, non trovate? Si forniscono alla macchina tutti gli elementi, si delineano le varie soluzioni, e con un semplice click ecco pronta la risposta più idonea al nostro quesito esistenziale. Niente più dunque giornate gravide di pensieri, niente più tensione, inquietudine, turbamento…, e niente più “notti che portano consiglio”: la macchina eliminerà tutto ciò che non serve, tutto ciò che è sovrastruttura inutile e buona solo a ingabbiarci nelle nostre sterili “paranoie”, e stilerà una lista asettica di pro e contro. E da qui, ecco pronta la soluzione migliore. Che portento la tecnologia, non trovate?
Ecco, a parte gli scherzi, a me tutta questa fiducia cieca nel “sole dell’avvenire” fa tremendamente paura. Possibile che ci sia davvero qualcuno che affiderebbe il suo futuro, la sua vita, ad un ammasso di circuiti elettronici? Possibile che la ricerca spasmodica della comodità, della semplificazione, dell’esistenza senza “pensieri” possa condurci un giorno ad abdicare completamente alle nostre prerogative di esseri pensanti? Possibile? Noi siamo quello che siamo perché la vita ci ha messo di fronte a delle scelte dal giorno in cui abbiamo messo piede sulla faccia della Terra, e nel corso dei nostri giorni l’esperienza (che qualcuno definisce “la somma dei nostri errori”) ci ha plasmato, ci ha fatto crescere e ha modellato il nostro modo di vedere il mondo. Ma ve l’immaginate un’esistenza in cui i computer ci debbano dire ad ogni passo cosa fare e cosa non fare… persino sull’amore, che è per antonomasia la più grande e meravigliosa follia che ci sia data di vivere? I computer sono degli straordinari strumenti al nostro servizio, ma sono privi - almeno per il momento e speriamo ancora per molto tempo - di qualità che sole appartengono agli esseri viventi: emozioni, sensazioni, intuizioni, umanità, istinto, razionalità e irrazionalità…! Tutto questo, e molto altro ancora, rende l’uomo straordinariamente unico nell’Universo, e non c’è macchina al mondo in grado di eguagliarlo neanche lontanamente. E poi, chi ci dice che la scelta fatta da un computer si riveli per forza di cose la migliore? chi ci dà la certezza matematica che affidandoci ad un processore, ne verrà fuori qualcosa di buono per noi? Se non altro, se devo proprio sbagliare qualcosa, preferisco farlo in perfetta autonomia. O no?
La fiducia che riponiamo in tutto ciò che è moderno e razionale ci sta allontanando sempre più dalla nostra natura, dal nostro istinto, e da tutto ciò non credo che ce ne possa derivare un gran vantaggio. In un articolo del 2009 così scriveva Massimo Fini: “Mi ricordo la vicenda del cieco e del suo cane il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. L’ordine, nei grattacieli in fiamme, era di stare calmi, di non muoversi, che sarebbero presto arrivati i pompieri e i mezzi a risolvere tutto. Ma il cane non sapeva né leggere né scrivere e, tantomeno, aveva orecchie per ascoltare. Fece ciò che l’istinto gli dettava; si precipitò giù dalle scale trascinandosi dietro il cieco, salvandosi e salvando il suo padrone. Anche noi siamo degli animali e dovremmo recuperare almeno un po’ di questa nostra natura oggi troppo sacrificata alla razionalità della tecnica”.
Fonte: http://www.repubblica.it/tecnologia/?ref=HRHM1-7
Così ragionavo con la mia amica Alessandra qualche settimana fa, durante una di quelle giornate tremendamente uggiose, umide e cariche di tinte grigie. Tipo queste ultime. D’altra parte, come diceva giustamente Flaiano, più si va avanti con l’età più i rimorsi lasciano campo ai rimpianti; e compiere gli anni durante i “giorni della merla” non aiuta affatto l’umore...! Certo che ci vuole una bella fantasia per far nascere un figlio nella stagione più brutta dell’anno…!
Va be’, ma a parte questo, è un dato di fatto che la maggior parte delle persone - ad un certo punto della loro vita - debbano fare dei bilanci. Ed i bilanci, per definizione, prevedono profitti e perdite. A chi infatti non è mai capitato di pensare che una scelta sbagliata abbia comportato conseguenze negative sulla propria vita? (Forse a Razzi, ma non ne sono certissimo…). Oppure che una scelta sbagliata in quel determinato momento storico della propria esistenza, si sia al contrario rivelata quella giusta sul lungo periodo. È il mistero della vita, e va accettato così com’è. Gli antichi per esempio credevano che il fato sopraintendesse alle esistenze di tutti i mortali, e che le scelte compiute più o meno consapevolmente da ognuno, altro non fossero che l’esecuzione automatica di ciò che era stato già scritto sul libro del destino. I protestanti, nei secoli hanno elaborato la teoria della predestinazione; e per Verga, cercare di allontanarsi dal sentiero tracciato per ognuno di noi (il naufragio della ‘Provvidenza’ dei Malavoglia), equivale alla rovina: “il ciclo dei vinti”. Per noi moderni invece, - abbagliati dal mito della ragione - il destino è qualcosa che risiede saldamente nelle nostre mani, e quindi ogni singola scelta compiuta nel corso della vita è un passaggio fondamentale per raggiungere le nostre aspirazioni. Già, ma proprio perché tutto dipende da noi, ecco che la scelta della strada giusta da percorrere diventa inevitabilmente un macigno carico di ansia e angoscia. Questo fino a ieri…! Come forse saprete, da oggi in poi abbiamo tutti uno strumento in più per non commettere errori: di alcun genere…! Il geniale Jonathan Jackson, esperto informatico, ha messo a punto uno straordinario programmino in grado di cavarci definitivamente dagli impicci: accettare o no un determinato lavoro? mollare o no la fidanzata? pizza ai peperoni e salsiccia, o una semplice margherita? Da questo momento non avrete più nessun assillo, più nessuna preoccupazione: decide per voi il programmino…! (che io peraltro, data l’importanza del compito che gli si affibia, chiamerei “programmone”). E come si chiama il fantasmagorico gingillo? “Choice Map”: semplicissimo anche il nome…! L’applicazione, come sottolinea l’inventore si basa su un algoritmo matematico, ed è in grado di risolvere questioni sociali: “Tutti facciamo errori, questo ha dato vita all’idea di una piattaforma digitale che aiutasse le persone a prendere le decisioni migliori”. Fantastico, non trovate? Si forniscono alla macchina tutti gli elementi, si delineano le varie soluzioni, e con un semplice click ecco pronta la risposta più idonea al nostro quesito esistenziale. Niente più dunque giornate gravide di pensieri, niente più tensione, inquietudine, turbamento…, e niente più “notti che portano consiglio”: la macchina eliminerà tutto ciò che non serve, tutto ciò che è sovrastruttura inutile e buona solo a ingabbiarci nelle nostre sterili “paranoie”, e stilerà una lista asettica di pro e contro. E da qui, ecco pronta la soluzione migliore. Che portento la tecnologia, non trovate?
Ecco, a parte gli scherzi, a me tutta questa fiducia cieca nel “sole dell’avvenire” fa tremendamente paura. Possibile che ci sia davvero qualcuno che affiderebbe il suo futuro, la sua vita, ad un ammasso di circuiti elettronici? Possibile che la ricerca spasmodica della comodità, della semplificazione, dell’esistenza senza “pensieri” possa condurci un giorno ad abdicare completamente alle nostre prerogative di esseri pensanti? Possibile? Noi siamo quello che siamo perché la vita ci ha messo di fronte a delle scelte dal giorno in cui abbiamo messo piede sulla faccia della Terra, e nel corso dei nostri giorni l’esperienza (che qualcuno definisce “la somma dei nostri errori”) ci ha plasmato, ci ha fatto crescere e ha modellato il nostro modo di vedere il mondo. Ma ve l’immaginate un’esistenza in cui i computer ci debbano dire ad ogni passo cosa fare e cosa non fare… persino sull’amore, che è per antonomasia la più grande e meravigliosa follia che ci sia data di vivere? I computer sono degli straordinari strumenti al nostro servizio, ma sono privi - almeno per il momento e speriamo ancora per molto tempo - di qualità che sole appartengono agli esseri viventi: emozioni, sensazioni, intuizioni, umanità, istinto, razionalità e irrazionalità…! Tutto questo, e molto altro ancora, rende l’uomo straordinariamente unico nell’Universo, e non c’è macchina al mondo in grado di eguagliarlo neanche lontanamente. E poi, chi ci dice che la scelta fatta da un computer si riveli per forza di cose la migliore? chi ci dà la certezza matematica che affidandoci ad un processore, ne verrà fuori qualcosa di buono per noi? Se non altro, se devo proprio sbagliare qualcosa, preferisco farlo in perfetta autonomia. O no?
La fiducia che riponiamo in tutto ciò che è moderno e razionale ci sta allontanando sempre più dalla nostra natura, dal nostro istinto, e da tutto ciò non credo che ce ne possa derivare un gran vantaggio. In un articolo del 2009 così scriveva Massimo Fini: “Mi ricordo la vicenda del cieco e del suo cane il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. L’ordine, nei grattacieli in fiamme, era di stare calmi, di non muoversi, che sarebbero presto arrivati i pompieri e i mezzi a risolvere tutto. Ma il cane non sapeva né leggere né scrivere e, tantomeno, aveva orecchie per ascoltare. Fece ciò che l’istinto gli dettava; si precipitò giù dalle scale trascinandosi dietro il cieco, salvandosi e salvando il suo padrone. Anche noi siamo degli animali e dovremmo recuperare almeno un po’ di questa nostra natura oggi troppo sacrificata alla razionalità della tecnica”.
Fonte: http://www.repubblica.it/tecnologia/?ref=HRHM1-7
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