Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

lunedì 4 novembre 2013

La fine della guerra

«Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12
La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una czeco slovacca ed un reggimento americano, contro settantatre divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d’Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l’irresistibile slancio della XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L’Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza. Il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il generale Diaz».

Con queste parole magniloquenti e “leggermente” retoriche si chiudeva per l’Italia la Prima Guerra Mondiale. Oggi, a distanza di 95 anni, nelle piazze e davanti ai palazzi dei Municipi della penisola si festeggia la vittoria, l’impresa eroica che restituisce le terre irredente al suolo patrio. È talmente un’epoca lontana per noi, e non parlo solo in termini temporali, che si fa fatica a comprendere quell’atmosfera, quelle ragioni e quelle dinamiche che hanno condotto a quel cataclisma mondiale. Per noi, cittadini occidentale del 21esimo secolo la guerra è un concetto antropologicamente incomprensibile, inafferrabile: come voler spiegare ad un pasciuto benestante cosa significhi provare la fame. Quando andavo al liceo la professoressa di storia usava spesso dire: “Quella dei vostri genitori è la prima generazione che non è andata in guerra…!”. Il che, se ci si pensa, è davvero un’asserzione sensazionale: significa cioè, che dalla Seconda Guerra Mondiale, e a risalire, c’è sempre stato un’occasione per chiamare alle armi. Poi, con l’avvento dell’incubo nucleare, lo stato di belligeranza si è concluso. Almeno per noi occidentali. Eppure, nonostante questo portentoso deterrente, di guerre sotto i nostri occhi ne sono scorse a decine: Corea, Vietnam, Afghanistan, Iraq, Serbia, Kosovo, Cecenia, Israele-Palestina, Turchia (Kurdistan), India (Kashmir) etc…! Senza parlare di tutte le guerre più o meno dimenticate in Africa. Ma c’è di mezzo la televisione, e dunque è come se si trattasse di un grande spettacolo hollywoodiano (inframmezzato dalle pubblicità che consigliano prodotti per la stitichezza cronica): se si può assistere ad una tragedia come la guerra, stando comodamente seduti a tavola, o spaparanzati sul divano, l’idea che passa nel nostro cervello è che sia tutto più o meno finto.
L’Italia in quella primavera del 1915 andò in guerra sull’onda dell’entusiasmo di personaggi come D’Annunzio («Voi volete un’Italia più grande non per acquisto, ma per conquisto, non a misura, ma a prezzo di sangue e di gloria…» - Quarto, 5 maggio 1915 - commemorazione della Spedizione dei Mille). In realtà la maggior parte degli italiani, come giustamente appuntava Giolitti nei suoi diari, era contraria alla guerra e l’intera nazione era impreparata per un evento di tale portata («Ma quale guerra! Se non abbiamo nemmeno un generale che valga una lira!»). Ma nonostante ciò, ci s’imbarcò in un’avventura spaventosamente irta di incognite. Con il Patto di Londra, l’Italia rinnegò la Triplice Alleanza stipulata con Austria e Germania nel 1870, e si schierò a fianco della Francia e dell’Inghilterra. E questo nonostante prima la Germania, e poi anche l’Austria, fossero disposte a cedere alle richieste italiane purché si mantenesse uno stato di neutralità: ovvero Trento e Trieste, la Venezia Giulia, Istria e Dalmazia e il Dodecaneso. Ma ormai era troppo tardi, il demone della guerra era già all’opera. E così, il 23 maggio del 1915, il Governo presieduto da Antonio Salandra comunica la dichiarazione di guerra alla sola Austria. Un patetico tentativo di non inimicarsi i ben più pericolosi tedeschi. Da quel momento l’Italia si trova a combattere una guerra spietata su di un fronte di 750 chilometri, vale a dire dal Mare Adriatico al confine svizzero. Al termine del conflitto i morti italiani saranno 600mila.
Ecco, tutto questo è stato la Prima Guerra Mondiale e molto altro ancora. L’Italia in quell’immane tragedia divenne una nazione: siciliani e piemontesi, calabresi e lombardi, s’incontrarono veramente per la prima volta, e nelle trincee e sotto il fuoco nemico, affrontarono il destino comune sentendosi un popolo. Mi fa una certa impressione scoprire che, nei paesini più sperduti dell’alto cremasco, quelli che di solito percorro durante le mie lunghe pedalate in bicicletta, vi sono lapidi e monumenti in ricordo dei caduti. La guerra non risparmiò neanche queste ultime periferie dell’Impero. Leggendo i nomi di quelle vittime, si scopre che erano quasi tutti parenti tra di loro, fratelli, cugini, cognomi che si rincorrono con una frequenza tale da dare la misura della sciagura che colpì queste piccole comunità.
L’Europa, con la Grande Guerra, non solo paga un tributo di vittime senza pari (le cifre più attendibili parlano di oltre 26 milioni di morti - di cui il 50 per cento civili), ma perde per sempre la sua egemonia - economica prima, e culturale dopo - a livello mondiale.
Ecco perché è giusto festeggiare oggi la fine della guerra.

Nessun commento:

Posta un commento