Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

lunedì 8 luglio 2013

Nome proprio di persona

L’altro giorno parlavo con una mia cara amica. Tra qualche giorno partorirà e così, tra le tante cose a cui sta pensando intensamente, c’è anche il nome da dare alla bimba. In realtà lei saprebbe già come chiamarla, vale a dire un nome tradizionale di famiglia. E fin qui non ci sono grossi problemi, dato che col marito c’è perfetto accordo. Il problema si pone con i successivi due nomi. E già perché, uno solo non basta: minimo tre. Ed è qui che l’accordo si incrina. Classici, moderni, desueti, fuori dall’ordinario, biblici o che si richiamino alla mitologia: c’è da sbizzarrirsi. Che poi uno potrebbe dire: “Ma a che servono tre nomi?”.
“A che servono tre nomi? Ma è la tradizione…, ovviamente: servono per portarsi dietro la famiglia”. Ecco, giusto: la famiglia. Eppure, a sentire gli psicologi, ogni persona tende ad uniformarsi al proprio nome, ad identificarsi con ciò che esso significa e rappresenta. A quale dei tre nomi dunque dare retta? “Ma al primo, naturalmente: il resto è bagaglio da portarsi dietro, ricordo di persone importanti”.
Il nome di una persona, conferito alla nascita, identifica e distingue un individuo all’interno di una collettività, lo rende unico. Ed è proprio qui che a me viene spontaneo un pensiero: e perché mai non si può avere un nome proprio esclusivo, uno tutto per noi? Invece di averne uno in condivisione con altri milioni di persone. Avete mai provato a urlare, che so, Francesco, o Giuseppe, Mario, Luca in una pubblica piazza affollata? Ecco, regalatevi quest’esperienza indimenticabile: si volteranno non meno di venti, trenta persone. Rarissimi sono i personaggi identificabili solo per nome (tipo Silvio) così come altrettanto rari sono coloro che vengono identificati con la professione che fanno o che facevano: l’Avvocato era per tutti, Gianni Agnelli. Ma al di là di questi sparuti casi, siano tutti persone comuni e anonime pur potendo contare su di un nome “proprio” di persona. Ma quale proprio e proprio…! Pensate invece se ognuno fosse titolare di un nome in esclusiva. Tipo gli indiani d’America: alla nascita ogni individuo riceveva un nome provvisorio, così tanto per non essere chiamato “Ah coso…” (tipica espressione in voga presso i Lakota-Sioux delle grandi praterie). Solo successivamente, con la pubertà, gli veniva dato il nome vero, quello definitivo. E tale nome poteva derivare o da un evento che l’aveva coinvolto durante questi anni, o da una propria caratteristica sia fisica sia psichica, o da una somiglianza con qualche animale. Ahanu (colui che ride), Ahiga (colui che combatte), Howahkan (voce misteriosa), Kohana (veloce), Napayshni (duro e coraggioso), Kwatoko (uccello dal grande becco). Ecco, quest’ultimo, ad occhio e croce doveva avere un naso tipo Dante Alighieri. Pensate che meraviglia: ogni uomo e ogni donna avevano un nome che non apparteneva a nessun altro. Un nome che era tutt’uno con l’essenza della propria persona, della propria anima. Bello, vero? Già, ma qui stiamo parlando di uno dei popoli più poetici della storia dell’Umanità, mica di una marmaglia di rintronati che danno nomi di profumi ai proprio figli. A queste mie elucubrazioni la mia amica ha risposto: “Ma guarda che da noi ci sono i soprannomi: in fondo è un po’ la stessa cosa”. Al che ho ribattuto: “Già, ma il soprannome è quasi sempre qualcosa di ironico, uno sberleffo attaccato a qualcuno tanto per prenderlo un po’ in giro”. E nelle realtà dove il dialetto è ancora vivo, ce n’è di tutti i generi e gusti. Il nonno di Dario Fo, ad esempio, era chiamato “Bristin”, ovvero seme di peperone. Così scrive Fo ne Il paese dei mezeràt: “Ho scoperto quasi subito la ragione di quel titolo: le battute e i commenti di mio nonno piccavano lingua e stomaco di chiunque si trovasse a ingoiarle”. Ma anche nella mia famiglia ci sono soprannomi molto belli: “Precochillo” (un fratello di mia nonna, sempre azzimato e fresco come una pesca); “Maometto” (uno zio lontano, piccolo e di carnagione scura); “Capacchione” (un tizio con la testa molto grossa); “Ricciosa” (una zia con un carattere aspro e scontroso). E così via. L’unico soprannome lusinghiero che ho mai sentito era quello che davano a mio nonno paterno: “Oh maste”, ovvero il maestro. Perché sul lavoro era molto in gamba. Anche i romani antichi avevano qualcosa del genere: Gaio Giulio Cesare, Marco Tullio Cicerone. Cesare e Cicerone, in realtà erano dei soprannomi (il primo si riferiva ad un parto cesareo, o anche ad un tipo dai capelli folti; il secondo viene da cece e pare che si riferisse ad un’escrescenza appunto a forma di cece sul volto). Tali soprannomi erano stati dati ai loro antenati e poi, nel tempo, erano entrati a far parte della locuzione completa del nome dei discendenti. Ci sono poi i nomignoli appiccicati ai bimbi, quelli pronunciati con grandi schiocchi di lingua e labbra e che sanno di vezzeggiativo: Chicco, Ghigo, Nené, Giuggiolino, Cipollino. Con il conseguente paradosso che i portatori di tali appellativi, anche a settant’anni saranno sempre chiamati alla stessa maniera. Il che, francamente, è imbarazzante.
Ed è così che mi sono affezionato a quella sorta di nome d’arte con il quale alcuni amici mi chiamano: Yanez. Molti anni fa mi trovavo su di una nave che, partita da Brest, faceva rotta per l’isola di Oussant. Nel vento fresco dell’Oceano Atlantico, la mia amica Teresa mi fissò per alcuni attimi e poi proruppe con un meraviglioso: “Ah Luì, ma lo sai chi mi ricordi in questo preciso momento?”. Io rimasi inchiodato senza dire una parola: pensavo che se ne venisse fuori con qualcosa tipo Giggi il bullo o Pierino colpisce ancora. E invece lasciò cadere queste parole magiche: “Yanez, l’amico di Sandokan”. Vale a dire Yanez de Gomera, il personaggio inventato da Salgari, corsaro portoghese, pirata gentiluomo, sempre pronto ad aiutare fedelmente Sandokan, la Tigre di Mompracem. Lì per lì feci finta di nulla. Nella realtà ero molto felice di questo accostamento. Tant’è che ancora oggi, firmo i miei pezzi con quello pseudonimo. Certo non è Tashunka Uitko (Cavallo Pazzo), né tantomeno Tatanka Iyotake (Toro Seduto), questo è ovvio, ma nella vita occorre pur accontentarsi.

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