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Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

venerdì 18 gennaio 2013

Sì, ma che cos’è la felicità?

È in corso in questi giorni (dal 17 al 20 gennaio) il Festival della Scienza di Roma: tema della kermesse, la “felicità”. Argomento decisamente controcorrente, e dunque coraggioso, in questi tempi di crisi economica e non solo. L’appuntamento capitolino, giunto all’ottava edizione, s’interroga sui segreti di questo misterioso fenomeno, su questo stato d’animo così sfuggente, inafferrabile e di difficile interpretazione.

Stato di grazia, euforia, gioia esplosiva e incontenibile, ebbrezza, allegria, giubilo, entusiasmo sfrenato: che cos’è la felicità e quali sono le cause che la governano?
“La felicità – afferma Vittorio Bo, direttore scientifico del festival – si pone come un bene intangibile a cui non possiamo fare a meno di pensare. È un concetto centrale in filosofia e in psicologia e più in generale, in ambito scientifico, è diventata sempre più oggetto di studio di discipline diverse, dalla biologia alle neuroscienze fino all’antropologia”.
Perbacco, a giudicare da quanti scienziati s’interessano alla materia, verrebbe da pensare che siamo ben lontani da una soluzione al nostro quesito.
Un paio d’anni fa il Financial Times pubblicò un’inchiesta in cui si cercava di assegnare dei parametri economici alla felicità: la salute veniva stimata in 1 milione e 300mila sterline, il matrimonio 200mila, un buon rapporto con i vicini 129mila, godersi finalmente la pensione 114mila. A tutto ciò, ovviamente, potremmo ribattere con l’antico adagio “il denaro non può dare la felicità”, ma poi ci troveremmo inevitabilmente a fronteggiare la chiosa di Woody Allen “figuriamoci la miseria!”. E dunque lasciamo perdere.
A dire il vero però, non sono tanto convinto che qualcuno baratterebbe sul serio un buono stato di salute con un bel gruzzoletto in banca. Passi per i vicini rumorosi, passi per un matrimonio in frantumi, ma la salute…! Nel film Ricominciamo da tre la compagna di Troisi, al termine di un litigio, dice: «Ma Gaetano, che c’importa di questa faccenda? In fondo quando c’è l’amore, c’è tutto». E lui prontissimo ribatte: «No, quella è la salute…».
Il Journal of Consumer Research ha pubblicato recentemente una ricerca nella quale si dimostrerebbe che la felicità è un concetto astratto identificabile più con il desiderio che non con il possesso. Marsha Richins della University of Missouri sostiene che quando in un individuo si manifesta un desiderio intenso, s’innescano immediatamente aspettative, si è propensi all’ottimismo, la bramosia del futuro possesso spinge verso l’allegria, l’euforia. Una volta ottenuto l’oggetto del desiderio tuttavia, questo stato di grazia scompare repentinamente, precipitando l’individuo nel cosiddetto “calo del piacere” dovuto all’appagamento. In altre parole, tutta la felicità provata nel desiderio, si esaurisce con la sua realizzazione. Come se il concetto di felicità fosse legato a filo doppio con l’immaginazione, con la proiezione futura, e dunque con l’aspettativa. Ed in effetti, quante volte c’è capitato di desiderare ardentemente qualcosa, di non dormirci la notte pur di possederla, salvo poi, dopo pochi giorni, abbandonarla nel dimenticatoio? I nostri padri erano ben a conoscenza di questo meccanismo, lo padroneggiavano con cura e attenzione: ecco perché prima di concedere qualcosa ai figli, facevano trascorrere il giusto tempo. In primo luogo l’attesa, accrescendo il desiderio, dava la dimensione dell’importanza e della consistenza del bene; in secondo luogo si instillava nelle menti in via di formazione l’idea che per ottenere qualcosa bisognasse meritarla. Il contrario dell’odierno “tutto e subito”, che fa strame di ogni principio e valore.
Felicità dunque, sarebbe avere desideri, non tanto realizzarli. È pur vero tuttavia che aver desideri e non riuscire mai a concretizzarli porta a frustrazione, abbattimento, sconforto. Ecco perché, per esempio, gli americani inserirono tra i principi fondamentali della loro Costituzione l’illuministico diritto alla felicità. Enunciazione certamente nobilissima, ma per forza di cose destinata ad essere utopistica: per definizione infatti, non tutti sono destinati alla felicità. Non per legge almeno.
Meglio a questo punto sarebbe puntare su qualcosa di più concreto e facilmente perseguibile: armonia, benessere, soddisfazione, serenità. Terzani diceva: «Io trovo che c’è una bella parola in italiano che è molto più calzante della parola “felice”, ed è “contento”. Accontentarsi, uno che si accontenta è un uomo felice». Già, ma questo ci porta inevitabilmente fuori tema. La felicità – o meglio la chimera della felicità – resta pur sempre un soffio di vento impetuoso che solleva da terra, che scuote la forza vitale dal profondo, che da ossigeno all’anima. “Or la squilla dà segno/della festa che viene; ed a quel suon diresti/che il cor si riconforta” dice Leopardi ne Il Sabato del villaggio. È l’idea della festa che “riconforta”, non tanto la festa in se. Perché quando poi la festa verrà, il pensiero sarà già al “diman tristezza e noia/recheran l’ore, ed al travaglio usato/ciascuno in suo pensier farà ritorno”.
E ancora nel film Qualcosa è cambiato Jack Nicolson s’innamora di una cameriera, e non sapendo come conquistarla si lascia andare allo sconforto. Ma il vicino, con il quale ha avuto un passato conflittuale, e che ora è diventato il suo unico amico, gli confida: «Sei un uomo fortunato Mel, perché a differenza di me, tu sai cosa vuoi». E così egli si carica nuovamente di fiducia ed entusiasmo e ricomincia a sperare.
E quindi il desiderio come essenza stessa della felicità. Finché l’uomo avrà la forza di desiderare ardentemente qualcosa, finché sarà capace di provare emozioni, slanci, fremiti, fino a che coltiverà i suoi sogni e le sue passioni, sarà un uomo vivo. E dunque felice.
Ecco forse la risposta che stiamo cercando.

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