Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

giovedì 29 novembre 2012

Si stava meglio quando si stava peggio?

La settimana scorsa si è tenuto a Milano il 57° Congresso Nazionale di Geriatria e Gerontologia. Mi interessano - anzi m’intrigano - sempre moltissimo queste notizie. E non perché sia malato di gerontofilia, ma perché ci trovo sempre qualcosa di tragicomico in queste faccende. E in generale, come ad esorcizzare un momento della nostra vita che arriverà prima o poi - sempre che il buon Dio lo voglia, s’intende - , si è assai propensi a ridersela degli acciacchi dei vecchi. Soprattutto quando si tratta di incontinenze violente o sordità feroci.
Una volta capitai con amici in un albergo di Riccione, era la fine di agosto. Gli ospiti della struttura erano quasi tutti ottuagenari e nella sala da pranzo c’era un caos assordante, dovuto al tenore di voce molto alto dei presenti. I camerieri erano esasperati anche perché, oltre a dover parlare quasi urlando per farsi capire, avevano a che fare con persone che pretendevano il trattamento. E che trattamento. E se ciò a loro avviso non era adeguato, erano pronti ad arrivare alle estreme conseguenze. Una sera ci raggiunse un nostro conoscente e quando si sedette a tavola con noi cominciò a guardarsi attorno preoccupato: in ogni direzione solo teste bianche, vociare assordante e rumore di nacchere masticanti. Se ne uscì con una frase che mi rimase scolpita nella mente: “Aho, ma che siamo finiti in un reparto geriatrico?”.
Con il mio amico Davide invece negli ultimi anni abbiamo cominciato una sorta di gioco a chi la spara più grosso, a chi si vanta di più in fatto di malattie ed età avanzante:
«Oggi ho la stessa energia di Asfidanken, il cane di Drive-In. Stavolta sono proprio malato. Tra l’altro ho la gola in frantumi: sembra che ho mangiato un riccio».
«Passa una vecchia e mi strimpella il campanellaccio della bicicletta nell’orecchio: “Sveglia giovane, un po’ di contegno”. Ecco, ora posso anche morire contento».
«Se mi secca invecchiare? Beh, considerando le alternative, no».
«Come sto io? Sempre peggio: la notte dormo poco, ho le extra-sistole e la pancia di un malato di fegato…! E così prendo dei lassativi. Non dormo lo stesso, però ho qualcosa da fare».
«Lascia stare, è una via crucis: ora è tre giorni che ho una specie d’infarto che non vuole esplodere. Resterò offeso e non se ne parla più. Intanto però, per un triste omino con gastrite ulcerosa acuta, brodino, pigiamino e nanna…, cazzo!».
«Allora fai così, lascia stare per una sera il Biancosarti e scolati la fiasca di Bisolvol: male non fa».
«Ma ti pare che non lo faccia già? Mi butto giù tante di quelle medicine che se mi fanno gli esami del sangue isolano la zona per pericolo di contaminazione batteriologica».
Tra gli altri argomenti di cui si è discusso al congresso milanese c’è stato quello sulle cause della longevità. Nel mondo pare che ci siano cinque località dove si vive più a lungo: Sardegna, Ikaria, Loma Linda, Okinawa e Costa Rica. In queste aree geografiche, chiamate dagli esperti “blu zones”, vi sarebbero alcuni elementi comuni che, combinati assieme, darebbero il giusto mix della longevità. Non si fuma, la famiglia ha assoluta priorità, si è attivi forzatamente poiché sono zone scoscese che costringono a camminate dispendiose, si fa una vita sociale importante, e si mangiano prevalentemente frutta, verdura e cereali. A spiegarlo è Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva. E da tale analisi ne derivano alcune regolette, che salvo eventi inaspettati, dovrebbero condurci a diventare tutti centenari. Per prima cosa ci vuole una corretta alimentazione. E fin qui ci siamo, anche se rinunciare al fritto misto, alle cotiche, agli insaccati e a tutti i cibi che fanno malissimo, ma sono ottimi, è una vera tragedia, oltreché un’ingiustizia. A seguire c’è il divieto tassativo di fumare, bere alcolici e drogarsi. Facile a dirsi, diranno molti di voi. Io per primo. So di persone che hanno intavolato trattative estenuanti e conteggi furiosi con i loro medici curanti per giungere ad un compromesso accettabile: «Allora dottore, mi stia bene a sentire: se rinuncio alla fiasca, ma continuo a fumare cinque sigarette al giorno, campo di più o di meno rispetto al fatto di farmi una pera di Settimo cielo al mese e un goccio di Fernet dopo cena?». Ma la risposta è sempre la stessa, ed è spietata: “La cura funziona solo se ci si attiene scrupolosamente alle disposizioni mediche…”. Ma andiamo avanti: una camminata a passo svelto non deve mai mancare nell’arco delle ventiquattro ore. Giustissimo, anche nel caso vi troviate in Louisiana, e dalla finestra vi sembra che si avvicini una specie di uragano: l’importante è camminare. Altra regola base è quella di assicurarsi un futuro economico stabile e sicuro: il consiglio è sottoscrivere polizze e pensioni integrative. Se poi siete lavoratori precari, cassintegrati, o peggio ancora disoccupati, che vi frega del futuro: anche tirando la cinghia fino a strozzarvi, non ci arrivate a cento anni. È già tanto se arrivate a fine mese. E ancora, dato che la vecchiaia porterà, tra le altre conseguenze, stanchezza, riduzione della memoria e disagi motori, meglio attrezzarsi per tempo con servizi domotici e controlli automatici per elettrodomestici. Già ai giovani capita di dimenticare la caffettiera sul fuoco, figuriamoci agli anziani. Ultimo consiglio? Affidarsi alla tecnologia per essere sempre in contatto con qualcuno che ci possa aiutare in caso di necessità, senza perdere al contempo l’autonomia domestica. Tipo il "Salva-la-vita Beghelli". Ottima invenzione, per carità. Anche se alle volte capita che l’anziano si addormenta con la cicalina al collo, si rigira nel letto e inavvertitamente suona l’allarme. Il figlio chiama al telefono per sapere se il papà sta male, ma questi purtroppo si è tolto l’apparecchio acustico andando a dormire, e dunque non sente. Al che parte l’allarme, i pompieri abbattono la porta d’ingresso con l’ascia e di fronte ad una selva di soccorritori preoccupatissimi si palesa l’anziano, visibilmente scocciato: “E voi che cazzo volete?”. E per finire, in tema di consigli, indossare maglie che effettuano check-up costanti: cuore, pressione, glicemia, sempre tutto sotto controllo. Che se poi un valore si discosta anche lievemente dalla norma, parte un avviso acustico violentissimo che, nella migliore delle ipotesi, causa un infarto miocardico al povero vecchio.
Se dietro a tutto ciò non ci fosse un’immane tragedia sociale, ci sarebbe da ridere. Ogni volta che ascolto questi consigli, queste ricerche che pretendono, in buona fede, di migliorare la nostra vita e quella dei nostri cari, mi sorgono sempre mille obiezioni. Obiezioni che si scontrano inevitabilmente con il nostro maledetto modo di vivere. Un tempo l’anziano era il perno della famiglia, era il saggio, il capostipite a cui si doveva rispetto. Esisteva un patto generazionale per il quale il vecchio, che a suo tempo era stato l’asse portante della famiglia, veniva accolto ed accudito dai figli. In quelle premure vi era l’amore e il riconoscimento per tutto ciò che egli aveva fatto nel tempo in cui era stato produttivo, per tutti i sacrifici fatti per tirar su la prole. Non c’era bisogno di previdenza, né di assicurazioni: la famiglia, con la catena solidale padre-figlio-padre, era tutto ciò che serviva. Per millenni questa è stata l’unica, forte garanzia di tutela per la vecchiaia. Il nostro attuale sistema previdenziale invece ha poco più di cento anni (il D.M. 18/7/1898 n. 350 istituisce la Cassa Nazionale di Previdenza come organo di tutela previdenziale per la vecchiaia e per l’invalidità) ed è già sulla via dell’estinzione. Oggi l’anziano è generalmente abbandonato a se stesso, vive giorni tristi e vuoti ed è isolato dalla famiglia, in quanto inutile portatore di problemi di cui nessuno vuole occuparsi. Ciò che conta è solo il successo, la dinamicità, il denaro, la gioventù: sono gli unici fattori sui quali basiamo il valore delle persone. E così il vecchio, per una semplice questione anagrafica, è tagliato fuori dal mondo. A meno che non provi a trasformarsi in un vecchio-giovane, tipo quelli che si tingono i capelli, oppure fanno le lampade, vale a dire coloro per i quali solitamente si usa l’espressione: “Però, lei ha proprio un aspetto giovanile”. Con il risultato però di diventare persone eccentriche e ridicole. Per coloro che non ce la fanno invece, nascono strumenti di controllo a distanza sempre più sofisticati, apparecchi dei quali gli anziani non ci capiscono quasi nulla, ma che fanno sentire la coscienza a posto. Ho visto in diverse occasioni uomini e donne dare in escandescenza con padri e madri anziani perché non riuscivano a intendere l’utilità e la modalità d’impiego di questi aggeggi. Erano scene di una tristezza infinita: si avvertiva in quell’aggressività tutto il distacco e l’insofferenza per quell’umanità ferita e bisognosa d’aiuto. Invece di accogliere e accudire l’indifeso, il malato stanco, colui che si avvia verso l’ultimo tratto di strada - e che per questo si sente ancor più perso e smarrito - gli regaliamo scatoline magiche, con pulsanti e lucine colorate, pretendendo che se ne serva. Si fa di tutto purché il vecchio non dia troppo fastidio. Quando invece neanche la tecnologia è sufficiente a consentire l’esistenza tra le mura domestiche, c’è sempre pronto un ottimo istituto, di quelli in cui gli anziani sono curati, lavati, pettinati. Tutto a regola d’arte, ci mancherebbe, ma pur sempre luoghi che assomigliano inevitabilmente ad anticamere della morte.
E tutto questo pare che si chiami progresso.

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